Quando il bambino si confronta a più lingue

   

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Condivido il testo della collega Ombretta Graciotti presentato al Convegno "Storie di bilinguismo" del 15 aprile, organizzato dall'APSI a Parigi

di OMBRETTA GRACIOTTI

Il bilinguismo è un tema di studio e di lavoro estremamente ricco e in continuo divenire, esso è fonte di approfondimento di discipline diverse, l’antropologia, la sociologia, le scienze del linguaggio, la psicologia e le neuroscienze più recentemente. In generale il bilinguismo è spesso associato all’acquisizione e allo sviluppo del linguaggio nel bambino e i ricercatori delle varie discipline tentano con differenti modelli teorici di comprenderne il meccanismo di acquisizione e di sviluppo. 

Nel tempo e nelle epoche il bilinguismo ha avuto più o meno successo; per esempio mi è capitato più volte, qui a Parigi di discutere con francesi d’origine italiana parlare della loro esperienza con la “lingua madre italiana” dei loro genitori. I genitori arrrivati in Francia nel periodo tra le due guerre nel 20esimo secolo, raramente trasmettevano la loro lingua d’origine ai figli, la parola d’ordine, era l’integrazione e l’assimilazione nel paese di accoglienza. Questi figli dicono di aver vissuto uno strappo, un taglio rispetto alle  loro origini. Oggi, alcuni di loro, imparano l’italiano per conoscere meglio le loro origini. La lingua in questo senso è considerata come idiomatica ma anche come rapprensentante di un’identità e di una cultura straniera.        

Oggigiorno, le cose sono molto diverse, in un mondo globalizzato e ricco di scambi, il bilinguismo è considerato come una ricchezza, confrontare il bambino alla differenza attraverso l’acquisizione e la promozione della lingua d’origine dei genitori, concomitante alla lingua del paese di accoglienza è accettato, promosso e sostenuto; basti pensare alla diffusione delle scuole paritarie, ma non solo, in Francia da una decina di anni, nelle scuole elementari in regioni come la Bretagna, la Corsica o in Occitania, delle lezioni sono impartite nelle lingue regionali che vengono riconsiderate come lingue paritarie al francese e permettono alle giovani generazioni di ritrovare una forma di identità e di cultura del territorio che abitano.  

In Italia,  anche chiamato il paese dei “mille campanili”, il rapporto tra l’italiano e le lingue dialettali è molto più flessibile e spontaneo. I tanti accenti, permettono ad ognuno di noi, d’individuare più o meno,  e non solo, l’origine geografica del nostro interlocutore. 

Ma che cos’è il linguaggio e il bilinguismo? Certo uno strumento di comunicazione con gli altri, ma non solo, esso è anche altro. Recentemente, una giovane italiana che lavora a Parigi da qualche anno, mi diceva che aveva cercato attivamente di crare un gruppo di amici italiani per uscire con loro nel week-end, in particolare essa mi diceva che “aveva bisogno di parlare in italiano”. 

Che cos’è questo bisogno di parlare italiano, a che cosa puo’essere legato? Certo per ogni persona ci sarà una risposta diversa.

Nella mia esperienza clinica con i bambini molto piccoli, mi è capitato più volte di essere confrontata a sintomi legati al linguaggio, alla parola e più in particolare nelle situazioni di bilinguismo.

Prima di entrare nel dettaglio di alcune sequenze cliniche, vorrei introdurre qualche elemento più generale del rapporto del bambino al linguaggio e alla parola, questi elementi prescindono dall’idioma nel quale il bambino è immerso. 

Al momento della nascita il bambino non parla, eppure egli è immerso in un “bain de langage” incarnato dai genitori e dall’ambiente circostante. Questo discorso intorno al bambino, sul bambino e rivolto al bambino formerà la struttura del lingaggio, nel quale egli evolve,  possiamo dire che il bambino “è parlato”, “ prima che parli”. Nel lavoro con i bambini è molto importante di riconoscere la sospensione, l’oscillazione tra l’essere parlato e cioè il discorso dell’altro e il bambino parlante, che è sempre in divenire.  

Il bambino piccolo si trova sempre tra questa oscillazione  tra l’essere parlato dagli altri e diventare un soggetto che parla. I bimbi piccoli parlano con il loro corpo per sopperire alla difficoltà di prendere la parola, si dice che il bambino è prematuro, nella sua capacità di dire i suoi bisogni, è attraverso il grido e il pianto che invoca il genitore, il quale traduce e trasforma in domanda, il bisogno del bambino. Allora il genitore risponde, nutrendolo, ma non solo, egli dà anche amore e parola, perchè si rivolge a lui nel momento della cura. E’ cosi che iniziano gli scambi tra i neonati e i genitori, una volta che la fame è soddisfatta, la suzione, le carezze e le parole materne/paterne si fondono nelle prime esperienze di piacere dalle quali emergeranno i primi vocalizi, i primi balbettii della parola che lascerà delle traccie nella lingua parlata dal soggetto. 

I genitori comunicano con i bimbi piccoli attraverso la parola, ma anche con la mimica, con i gesti, con le inflessioni della voce e i bimbi rispondono a queste sollecitazioni. Ogni madre inventa la sua propria “lingua dei segni” con il suo bambino e vocalizza la sua parola, è qui che il bambino tesse il suo piacere per la comunicazione e l’amore della lingua. Comprendere i bisogni dei bambini è certo importante, ma ad esso si associa la domanda d’amore e il desiderio, questi tre aspetti fondano la relazione tra i bambini e i loro genitori, ma non solo, esso fonda anche il rapporto tra il soggetto e la lingua materna, questo rapporto non va senza i malintesi e i fallimenti che sugellano il legame unico che ciascuno intrattiene con la lingua materna. In questo senso, il bambino non apprende semplicemente una lingua, ma ne crea una all’interno di un’altra. Gilles Deleuze diceva che i poeti avevano questa capacità stilistica del bilinguismo, inteso come uno stile: “Uno stile, è riuscire a balbettare nella propria lingua (…) noi dobbiamo essere bilingui anche in una sola lingua, dobbiamo avere una lingua minore anche all’interno della nostra stessa lingua”.  

Lavoro in un centro che accoglie delle famiglie con bambini fino a 5 anni, quasi tutti i membri dell’équipe sono bilingue (5/6 lingue sono rappresentate), molte famiglie d’origine straniera si rivolgono al nostro centro e soprattutto quando il bilinguismo è occasione di difficoltà, ecco l’esempio di Anna che ha 4 anni la cui famiglia è di origine italiana. La madre si rivolge a noi perchè la figlia non parla il francese ed a scuola iniziano i problemi, lei vuole che sua figlia parli con un collega francese, senza accento, in maniera che questi le insegni la lingua del paese di accoglienza. La madre dice che Anna parla molto bene l’italiano, meglio della maggior parte dei bambini della sua età. Per la madre è importantissimo che sua figlia non perda l’italiano, è per questa ragione che lei non desidera che “il francese entri in casa “. 

Nei primi tempi Anna non parla e resta isolata, poi un giorno scoppia a ridere quando un collega imita con un suono vocale uno scontro tra due macchinette “Bing Bang”, è in questo modo che Anna entra in relazione con lui, si anima nei giochi, ma senza parlare mai, senno’ qualche parola in italiano.   

Un giorno, giocando con un separé a finestre multicolore il collega le dice “Oh, tu es jaune! Tu es bleu! etc.”, Anna allora dice “giallo, blu, verde”. Il mio collega francese tenta di ripetere le parole con il suo accento francese, soprattutto per la parola “ jalo’”, che la sorprende e la fa ridere tantissimo. Con il tempo, Anna insegna al mio collega delle parole in italiano, con un piacere condiviso e di seguito, lei si aprirà al francese e potrà iniziare a conversare anche con gli altri colleghi del centro. 

Vediamo come in questa situazione, è stato possibile l’incontro con altro, con uno stile, un balbettio nella lingua che ha permesso ad Anna di superare la barriera della lingua materna, ed al di là dell’acquisizione delle competenze linguistiche del francese, di fare incontro con l’estraneo che si trova nel linguaggio. 

Ombretta Graciotti


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