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Martina ha 25 anni, é una ragazza dinamica, piena di amici e corteggiata dai ragazzi. Lavora in uno studio di consulenza ed il profilo LinkedIn descrive una giovane donna in carriera. Ma dietro quel curriculum si nasconde una lunga storia di dolore invisibile. Una storia cominciata molti anni addietro, quando ha tentato la sua prima dieta.
Il disturbo alimentare di Martina non è nato all’improvviso. Come spesso accade si è insinuato lentamente, prendendo forma nel tempo. Le prime abbuffate sono arrivate durante l’ultimo anno delle superiori, in un momento di forte stress emotivo. Aveva appena vissuto una delusione affettiva, si sentiva sotto pressione per la maturità e avvertiva su di sé il peso delle aspettative familiari.
In quel periodo Martina ha cominciato a controllare rigidamente l’alimentazione. Saltava i pasti, si pesava più volte al giorno e contava le calorie con precisione maniacale. Ma il corpo non era l’unico bersaglio: il cibo diventava, sempre più, un modo per sedare il dolore, una valvola di sfogo per emozioni che non sapeva nominare.
“Mi sembrava di poter controllare almeno quello, il cibo. Era l’unica cosa che dipendeva da me. Ma presto mi è scappato tutto di mano.”
Martina soffre di bulimia nervosa, un disturbo ancora troppo poco compreso e spesso sottovalutato. A differenza dell’anoressia, che spesso viene notata per la perdita drastica di peso, la bulimia può restare nascosta per anni. Chi ne soffre, infatti, tende ad avere un peso normale o leggermente fluttuante. Ma dentro, la sofferenza è intensa.
Il ciclo è sempre lo stesso: restrizione → abbuffata → senso di colpa → compensazione. Una gabbia mentale che diventa via via più stretta. Il senso di vergogna è talmente profondo da impedire, a lungo, la richiesta d’aiuto.
Gaia, una cara amica di Martina, ha tentato spesso di aiutarla con indirizzi di psicologi nella speranza che la ragazza si decida a chiedere, finalmente, aiuto.
Dopo una crisi di bulimia, particolarmente violenta, Gaia l’affronta e “costringe” a prendere appuntamento con uno psicoterapeuta.
Martina inizia una psicoterapia, ma con grande esitazione, teme di “non essere abbastanza malata” o di non meritare attenzione. Ma fin dalle prime sedute ha compreso che il disturbo non era solo nel cibo. Il sintomo alimentare era la punta di un dolore più profondo: il bisogno di controllo, la fatica di gestire le emozioni, il terrore del rifiuto, il senso di inadeguatezza che da anni le faceva compagnia.
I colloqui di Martina affrontano vari aspetti della vita della ragazza: iniziamo dal tentativo di regolarizzare l’assunzione del cibo, per interrompere il ciclo restrizione-abbuffata. In parallelo occorre aumentare la consapevolezza emotiva per riconoscere rabbia, tristezza e frustrazione.
Parte assai importante è ridefinire l’autostima, troppo legata al peso, al corpo ed alla performance, in un’immagine idealizzata di Martina impossibile da “tenere a lungo”.
Anche la costruzione di strategie alternative per affrontare il disagio è assai utile: scrittura, meditazione, sport e relazioni più autentiche. Per Martina non sono mancati momenti di crisi. Ci sono stati giorni in cui le abbuffate sono tornate, ma con meno violenza. Giorni in cui ha imparato a non punirsi, ma a chiedersi: “Cosa mi sta dicendo questa fame?”. Domande nuove, per rompere vecchi automatismi.
Il medico di base voleva prescrivere degli ansiolitici per affrontare l’ansia e i pensieri ossessivi ma Martina non ha voluto assumerli, ci dice: “…Il cuore del cambiamento è relazionale: costruire fiducia e sperimentare nuovi modi di stare al mondo.”
La storia di Martina non è un’eccezione. I disturbi alimentari – bulimia, anoressia, binge eating – colpiscono milioni di persone nel mondo. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 3-4% delle donne giovani soffre di bulimia nervosa, ma i numeri sono probabilmente sottostimati a causa della vergogna e del silenzio.
Viviamo in una società in cui l’immagine del corpo è costantemente sotto osservazione, in cui si insegna a sorridere, a performare, a "funzionare", ma raramente a sentirsi. Dove il disagio prende forme silenziose e accettate, come la fame che si nasconde nei cibi ingeriti in fretta, nelle corse in bagno per vomitare, nei lunghi sensi di colpa.
Oggi, Martina non dice di essere guarita. Dice piuttosto di essere “In cammino”. Ha imparato a distinguere la voce del disturbo da quella della propria verità. Sa che ci saranno giorni buoni e giorni difficili, ma non è più sola. Ha trovato uno spazio dove essere vista, senza giudizio. E, soprattutto, ha scoperto che non deve essere perfetta per essere amata.
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