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Chiara e Luca

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Chiara ha 28 anni e Luca 30. Si sono conosciuti a Milano ove si erano trasferiti dal sud Italia per gli studi. Descrivono il loro incontro “magico” e fonte di grande serenità e gioia. Stanno assieme da cinque anni e convivono da tre, Chiara è grafica freelance e Luca fisioterapista. Un amico di Luca lo convince a trasferirsi a Nizza ove avrà sicuramente ottime prospettive di lavoro, mentre Chiara che lavora on-line potrà continuare senza problema anche a distanza.
Il primo anno a Nizza li vede soddisfatti della scelta, cominciano a conoscere tanti altri italiani, come loro trasferitisi alla ricerca di un lavoro più gratificante.
Poi qualcosa si “rompe” tra di loro. La coppia si presenta in consultazione su iniziativa di Chiara, che riferisce un progressivo allontanamento affettivo e una sensazione di vuoto nella relazione. Luca accetta di partecipare, pur manifestando scetticismo e una certa difficoltà a riconoscere la dimensione emotiva del disagio.
Entrambi riportano un momento “pesante” caratterizzata da difficoltà comunicative, calo del desiderio e sentimenti di incomprensione reciproca.
Chiara riferisce di “Non sentirsi più vista né desiderata”, mentre Luca lamenta “Continue richieste e tensioni” che lo portano a ritirarsi. La (dolorosa) domanda esplicita della coppia è comprendere se “Ha ancora senso restare insieme”, ma sul piano implicito emerge un bisogno di riconoscimento e validazione reciproca, spesso agito attraverso modalità difensive.
Durante le prime sedute si evidenzia una dinamica interattiva complementare: Chiara tende a occupare la posizione di chi ricerca contatto e conferme affettive, mentre Luca assume un atteggiamento di distacco e razionalizzazione.
Anche il linguaggio corporeo della coppia rifletta tali polarità: Chiara è protesa in avanti, con tono di voce carico di urgenza emotiva; Luca è più composto, spesso distoglie lo sguardo, e parla in modo contenuto, talvolta difensivo.
Il dialogo è frequentemente interrotto da incomprensioni che riattivano nel campo relazionale un clima di frustrazione. Si percepisce nella stanza una tensione oscillante tra desiderio di fusione e timore di invasione, che viene letta come espressione di un conflitto di fondo relativo ai bisogni di attaccamento e autonomia.
Appare chiaro che i due giovani si “lanciano addosso” difficoltà legate alle rispettive vicende familiari senza averne chiara comprensione. Entrambi sentono di avere ragione ed il tutto non fa che allontanarli pur con tutta la sofferenza che comporta il solo pensiero di lasciarsi…
Lavoriamo con Chiara sul proprio bisogno di contenimento e sicurezza, che esprime in forma di rimprovero o richiesta controllante nei confronti di Luca, che si sente “attaccato” e non percepisce la sofferenza di Chiara all’origine di tale comportamento.
Chiara ci racconta la sua esperienza infantile di avere avuto a che fare con una madre emotivamente imprevedibile, in cui la ricerca di vicinanza veniva vissuta con ambivalenza, paura e delusione. Da qui il suo profondo timore di “perdere” Luca che la porta ad agire aggressivamente nei suoi confronti, anziché esprimere il proprio bisogno di rassicurazione e la sua paura.
Luca, dal canto suo, esprime un modello relazionale di ritiro difensivo, legato ad una madre vissuta come intrusiva e ad un padre poco presente, che lo hanno portato a costruire un Sé autonomo a costo di un forte controllo affettivo ed emotivo.
Portare a livello consapevole le due dinamiche psicologiche che Chiara e Luca che si proiettano l’uno verso l’altra permette di cogliere la sofferenza di entrambi piuttosto che la sola parte aggressiva, richiedente, esigente o sfuggente.
Il conflitto inconscio della coppia può essere descritto come lo scontro tra due fantasmi relazionali: quello di Chiara, che teme l’abbandono, e quello di Luca, che teme l’invasione. Le rispettive difese — l’agito relazionale di tipo fusionale di Chiara e il ritiro evitante di Luca — mantengono il legame, ma ne impediscono la crescita.
Ma Chiara e Luca come sappiamo in cuor loro desiderano salvare la coppia. É che non sanno come fare dato che non riescono ancora a riconoscere ciò che li lega veramente e ciò che li allontana.
Ovviamente non é facile per i due giovani comprendere appieno queste dinamiche, capire che ognuno di loro ha bisogni, paure e desideri da esprimere e non vale il discorso del “Chi ha più ragione”…
Il lavoro terapeutico continua e le sedute successive sono all’insegna di una maggiore consapevolezza per entrambi, riconoscimento dei bisogni e desideri reciproci ed “abbassamento” delle difese e dei momenti di tensione dovuti ai “fraintendimenti”.

Chiara riesce a riconoscere la propria ansia di separazione come parte della sua storia personale e non come conseguenza diretta del comportamento di Luca.
Luca, dal canto suo, comincia a verbalizzare la paura di “essere invaso” e di “non avere spazio per sé”, comprendendo come il suo silenzio sia un modo per evitare la perdita di controllo.
Il clima relazionale si fa più tollerante: la coppia riesce a confrontarsi senza attivare immediatamente il ciclo di attacco-ritiro. Il desiderio reciproco sembra riemergere come espressione di un incontro meno difensivo.
Il caso di Chiara e Luca evidenzia la difficoltà, tipica di molte coppie giovani contemporanee, di integrare i bisogni di autonomia e di dipendenza all’interno di una relazione stabile.
La terapia ha mostrato che la crisi non era segno di disamore, ma manifestazione di un conflitto evolutivo tra il desiderio di fusione e la paura di annullamento, riattivato da antichi modelli familiari .


Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 

Forum Engagement - 29 ottobre 2025

 

 
 

Soremax é stata invitata al Forum de l'Engagement del 29 ottobre al parc Phoenix di Nizza.

Dalle 14 alle 14.45 avremo uno spazio dedicato per presentare Soremax al pubblico.

 

 

 

Marta, il corpo come rifugio

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Marta è una ragazza diciannovenne che vive con i genitori e la sorella minore di un anno Sonia, non lontano da Montpellier.
Fin dall’adolescenza ha mostrato una certa insicurezza e una forte sensibilità al giudizio altrui. Durante gli studi è stata oggetto di prese in giro per il suo aspetto fisico, esperienza che ha inciso profondamente sulla sua autostima. Da allora ha iniziato a usare il cibo come fonte di conforto, soprattutto nei momenti di stress o solitudine. Appena prende peso lascia il ballo che è la sua passione sin da bambina, appena torna a controllarsi ricomincia le lezioni. 
La madre ha una lunga storia di diete fallite e tende a criticare spesso l’aspetto della figlia maggiore, anche se con intenzioni “educative”. Il padre, più distante emotivamente, tende a minimizzare le difficoltà psicologiche, sostenendo che “Con la forza di volontà si risolve tutto”.
In questo contesto Marta riferisce di sentirsi poco compresa e di nascondere la propria sofferenza per non deludere i genitori. Marta percepisce la famiglia come affettuosa ma poco disponibile a parlare di emozioni. 
Marta e Sonia sono complici nella vita, escono spesso assieme ed hanno i loro primi flirt con comuni amici di scuola. Si confidano e spalleggiano dato che la loro mamma è ben poco interessata alle loro storielle con i ragazzi. Proprio un compagno di classe di Marta rappresenta il suo primo vero legame affettivo: Giacomo è un ragazzo dolce e premuroso con cui la ragazza sta proprio bene.
Al termine degli studi Marta cerca un semplice lavoro dato che non ha voglia di studiare mentre Giacomo si trasferisce a Montpellier per iscriversi a Scienze dell’Educazione (STAPS).
Il trasferimento di Giacomo viene vissuto molto male da Marta che si sente “abbandonata” e si ritrova ad essere molto gelosa. Non avrebbe pensato di stare così male ma teme che Giacomo incontri un’altra ragazza più carina di lei… Sonia cerca di rassicurarla, è assolutamente certa di Giacomo ma la sorella è veramente angosciata.
Marta, al momento solo un po’ sovrappeso inizia a mangiare di tutto, anche di notte, pasticcia e addirittura assume cibo già scaduto e in breve tempo prende molti chili.
Sonia è consapevole della grave sofferenza della sorella e la esorta a chiedere aiuto, oltretutto Marta ha preso tanti chili e dice di sentirsi “Bloccata nel corpo sbagliato” e di “Non avere più voglia di uscire, tanto non valgo niente, nessuno potrà mai accettarmi così.”
Marta viene in consultazione accompagnata da Sonia, che si comporta da “genitore” visto che i veri genitori hanno difficoltà a comprendere la sofferenza della ragazza.
Marta ci racconta che per la sua gelosia “patologica” Giacomo la ha chiesto una pausa, che ovviamente la ragazza vive come l’inizio della fine, cosa che non corrisponde a quanto Giacomo pensa.
Proponiamo un incontro tra Marta, Giacomo e noi, nel tentativo di ristabilire una comunicazione “sana” tra i due ragazzi.
Pur con difficoltà Marta si convince che Giacomo è preoccupato e non sa che fare dell’immotivata (dal suo punto di vista) gelosia della ragazza, e acconsente a tornare al paese per alcuni mesi, per rassicurarla e starle vicino.
Si tratta di un primo passo, ora occorre lavorare sul senso di abbandono che Marta vive appena sente di “perdere il controllo” nei confronti di Giacomo.
Il corpo di Marta sembra diventare una metafora del suo mondo interno: il peso rappresenta una difesa, un modo per contenere emozioni che non trovano parole. Il cibo è il suo linguaggio affettivo, un mezzo per colmare il vuoto emotivo e la mancanza di riconoscimento. 
L’obesità non è solo un sintomo fisico, ma un modo di essere nel mondo, una protezione contro l’esposizione, il giudizio, il rifiuto e l’abbandono.
Con l’aiuto di un accompagnamento nutrizionale Marta riprende (pur con fatica) a meglio gestire il cibo, in termini di quantità e qualità, e perdere alcuni chili, non solo riprende i suoi corsi di danza e può guardarsi allo specchio senza “Vedersi grassa come una balena…” (Parole sue).
Il lavoro di consapevolezza sui genitori non sortisce grande effetto, la mamma è sempre giudicante e poco empatica mentre il babbo è convinto (in cuor suo) che il cibo, il peso ed il corpo siano solo problemi che angustiano le donne, giovani o meno !
Giacomo, davvero colpito dalla sofferenza di Marta le propone di trasferirsi a Montpellier, potranno affittare uno studio assieme e poi la ragazza si troverà un lavoretto.
Giacomo chiede a Marta di continuare le sedute, talvolta assieme o individualmente, per affrontare i “suoi fantasmi” che in situazioni di stress psicologico emergono con forza: altresì prosegue il lavoro di consapevolezza alimentare per la ragazza, con l’accompagnamento che potrà portarla a vivere il cibo come nutrimento e non scudo o trasformarsi in un modo per allontanare il dolore emotivo che non riesce ad esprimere altrimenti.

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 



La "teoria delle finestre rotte"



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Nel 1969 il professor Philip Zimbardo, (quello dell'esperimento precedente) docente all’università di Stanford decise di condurre un esperimento di psicologia sociale. Lo psicologo statunitense (di origini italiane) volle studiare il comportamento delle persone in una situazione creata apposta: lasciò due auto abbandonate in strada, due automobili identiche, della stessa marca, modello e colore. Una però la lasciò nel Bronx, una zona povera e conflittuale di New York, l’altra la lasciò a Palo Alto, ancora oggi una zona ordinata ricca e tranquilla della California.
Due auto uguali abbandonate, in due quartieri con popolazioni molto diverse. Con un gruppo di ricercatori nascosti a studiare il comportamento delle persone in ciascun sito.
L’esperimento fornì i primi risultati nel giro di poche ore: l’automobile abbandonata nel Bronx cominciò ad essere vandalizzata il giorno stesso. Dapprima furono rubate la radio, le ruote e gli specchietti, poi parti del motore. Ciò che poteva essere utilizzato fu rubato immediatamente, il resto dell'auto distrutta. Dall’altra parte del Paese invece, l’automobile abbandonata a Palo Alto, dopo una settimana risultava ancora intatta.
I ricercatori a questo punto decisero di fare un ulteriore esperimento: provarono a rompere un vetro della vettura parcheggiata in strada a Palo Alto, nella ricca California. Il risultato fu che si innescò anche per questa auto lo stesso processo, come nel Bronx a New York. Furto e vandalismo ridussero questo veicolo rapidamente ad un rottame.

La domanda era quindi: “Perchè la semplice rottura di un vetro in una macchina abbandonata in un quartiere presumibilmente sicuro è in grado di provocarne a breve la sua distruzione?”
La scoperta: quel fatto, il processo criminale, non era stato provocato dalla povertà, ma era successo qualcosa di diverso. Che aveva a che fare con la psicologia  sociale e con il comportamento umano. Da tale esperimento si comincerà a parlere della “Teoria delle finestre rotte”, molto utile per indagare i fenomeni sulla poverta ed i contesti sociali.

La teoria delle finestre rotte è una teoria criminologica sulla capacità del disordine urbano e del vandalismo di generare criminalità aggiuntiva e comportamenti anti-sociali. La teoria afferma che mantenere e controllare ambienti urbani reprimendo i piccoli reati, gli atti vandalici, la deturpazione dei luoghi, il bere in pubblico, la sosta selvaggia o l'evasione nel pagamento dei parcheggi, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi.
Ad esempio l'esistenza di una finestra rotta (da cui il nome della teoria) potrebbe generare fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere un lampione o un cassonetto, dando così inizio a una spirale di degrado urbano e sociale. 


Zimbardo ci ricorda che: “La linea tra il bene e il male è permeabile. Quasi chiunque può essere indotto ad attraversarla quando viene spinto da forze situazionali (ovvero dal contesto)”

 
In pratica ci si domandò: che pensiero produce la visione di un vetro rotto in un’auto abbandonata?  Trasmette un senso di deterioramento, di disinteresse e di non curanza. Più in generale trasmette la sensazione di “rottura” dei codici di convivenza. Come altri esperimenti successivi consentirono di rilevare: è il SEGNALE di un territorio con assenza di norme, privo di regole, dove si può fare di tutto. Ogni nuovo attacco subito dall’auto finisce poi con il ribadire e moltiplicare quell’idea. Fino all’escalation di gesti incontrollabili e violenti rivolti anche alle persone.

Chi di voi ha seguito la serie televisiva Blue Bloods con Tom Selleck, che veste i panni di Frank Reagan, capo della Polizia di New York, lo avrà sentito spesso citare la "teoria delle finestre rotte" ai suoi collaboratori, in riferimento ad alcune zone difficili della grande mela.

Negli anni ottanta una prima applicazione di tale teoria ha visto coinvolta la Metropolitana di New York. La Subway, come in gergo viene chiamata ancor oggi, era il luogo più pericoloso della città. Si cominciò combattendo le piccole trasgressioni: graffiti che deterioravano il posto, lo sporco dalle stazioni, ubriachezza tra il pubblico, evasione del pagamento del biglietto, piccoli furti e disturbi. I risultati furono evidenti: non trascurando le piccole trasgressioni si è riusciti a fare della Metro un luogo sicuro.
Successivamente, nel 1994, Rudolph Giuliani (anch'egli figlio di immigrati italiani) quando divenne sindaco di New York, basandosi sulla "teoria delle finestre rotte" e sull’esperienza della metropolitana promosse quella come regola della sua amministrazione: “la politica della tolleranza zero”. Che non aveva niente di rigido, nel senso normalmente inteso, bensì la formula di una strategia: quella di creare comunità pulite ed ordinate, non permettendo violazioni alle leggi e agli standard della convivenza sociale e civile. Il risultato pratico è stato un enorme abbattimento dei tassi di criminalità in tutta la città di New York.
In sostanza: la criminalità è più alta nelle aree dove l’incuria, la sporcizia, il disordine e l’abuso sono più alti. Se si rompe il vetro di una finestra di un edificio e non viene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare a nessuno? Allora lì si genererà la criminalità.
Se sono tollerati piccoli reati come il parcheggio in luogo vietato o il superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti? Si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi.

La Teoria delle Finestre Rotte afferma invece – ed è qui la novità, come si è detto – che la criminalità è invece un fenomeno sociale: fenomeno che non parte da un particolare tipo di persona ma da una “caratteristica”, da una infrazione alla regola. Appunto il vetro rotto “nell’ambiente circostante” che, se non riparato per tempo, comporterà fenomeni di emulazione anche violenta sulle cose e sulle persone.



Giulia, tra anoressia e bulimia

 

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Giulia ha 21 anni ed è una studentessa universitaria che vive con i genitori e un fratello minore. Famiglia benestante, con valori centrati sul rendimento, l’autocontrollo e la buona immagine sociale. La madre è una figura dominante, perfezionista e molto attenta al corpo e all’alimentazione; il padre è più distaccato emotivamente.
Fin dall’infanzia, Giulia ha imparato che l’amore e l’approvazione passano attraverso la prestazione (essere brava, controllata, ordinata, “giusta”). Non è mai stata incoraggiata a esprimere rabbia, tristezza o fragilità. Le emozioni, soprattutto quelle negative, sono vissute come pericolose e da reprimere.
Giulia è sempre stata una studentessa diligente, perfezionista e sensibile al giudizio altrui. Ha mostrato tratti di ansia da prestazione e bassa autostima, con una tendenza al controllo come modalità di gestione delle emozioni.
 Durante l’adolescenza ha subito alcuni episodi di derisione da parte dei coetanei per il suo corpo (“un po’ in carne”), che hanno inciso profondamente sulla percezione di sé. Giulia inizia a sperimentare insicurezze legate al corpo e al confronto sociale. Le prime diete nascono da un bisogno di riconoscimento e di controllo, ma si trasformano progressivamente in un mezzo per gestire il vuoto emotivo e l’angoscia.
 Il corpo diventa il terreno su cui si esprime una tensione interna tra desiderio di autonomia e bisogno di approvazione.
L’esordio “ufficiale” del disturbo risale ai 18 anni, in concomitanza con un periodo di stress legato alla maturità scolastica. Inizialmente Giulia ha iniziato una dieta “per sentirsi più in forma”, riducendo progressivamente l’apporto calorico e aumentando l’attività fisica.
La restrizione alimentare e il dimagrimento progressivo offrono a Giulia una sensazione di potenza e padronanza: il controllo del corpo sostituisce la percezione di controllo sulla propria vita. Il cibo negato diventa simbolo di autonomia e purezza, mentre la fame diventa una forma di autodisciplina estrema.
Dopo mesi di restrizione, Giulia inizia a vivere episodi bulimici. Questi rappresentano il collasso del controllo e l’irruzione di parti psichiche scisse e represse. 
Nelle sedute ci racconta che: “…Le abbuffate esprimono un bisogno affettivo e orale non riconosciuto, un tentativo di “riempire” il vuoto interiore con il cibo, simbolo di nutrimento e amore.”
Non solo, Giulia ricorre anche al vomito quando cede alle abbuffate. Il vomito auto-indotto diventa il gesto purificatore: ciò che è stato introdotto viene espulso per non essere contaminata, né fisicamente né emotivamente.
Questo ciclo (riempire e svuotare) riflette la dinamica tra bisogno di fusione e terrore della dipendenza. Giulia desidera essere accolta, ma teme di perdere sé stessa se si lascia nutrire o amare.
Il corpo, per Giulia, non è solo un oggetto estetico, ma il campo di battaglia della sua identità.
Attraverso il peso, la fame e il vomito, costruisce un linguaggio corporeo che traduce conflitti psichici profondi:
Nel corso delle sedute verbalizza che: “Esisto solo se riesco a controllarmi e più dimagrisco più valgo”
Il cibo per Giulia ormai non è più nutrimento, ma mezzo di regolazione affettiva ed il corpo diventa, in senso simbolico, il luogo in cui si manifesta la difficoltà di integrare mente ed emozioni, desiderio e colpa, autonomia e bisogno.
Il lavoro terapeutico permette di affrontare la mai risolta ambivalenza verso la madre: Giulia idealizza e nel contempo rifiuta la figura materna, vorrebbe essere come lei ma capisce che ha bisogno di distaccarsi per vivere la sua vita.
Non solo, il feroce controllo del cibo e del corpo, con i successivi cedimenti bulimici, ci dicono quanto la sua identità sia fragile. Nelle mente di Giulia fame e sessualità sono vissute come pericolose e vanno negate. 
Giulia in seduta ricorda le difficoltà che aveva la madre per farla mangiare sin da piccola: bizzarri rituali per darle il cibo con il cucchiaino, con la mamma sempre nervosa al momento del pranzo o della cena.
Quindi una relazione primaria con la madre tramite il cibo vissuto come campo di battaglia piuttosto che momento emotivamente rassicurante e contenitivo.
Partendo da questi ricordi di Giulia possiamo affrontare l’ambivalenza nei confronti della madre, lavorare sulla separazione psichica delle due donne e nella costruzione di un’identità autonoma della giovane.
Un passaggio importante per Giulia é anche riconoscere e tollerare le proprie emozioni, soprattutto rabbia e bisogno di dipendenza, senza agire attraverso il corpo sia con il controllo anoressico che con il “cedimento” bulimico.
Anche un accompagnamento “reale” sul tema del cibo, ovvero prepararsi il mangiare, cucinarlo ed assumerlo, con consapevolezza e ritrovata pacificazione, aiuta Giulia a non confondere il cibo con le emozioni…
Nel caso di Giulia, il disturbo alimentare appare come una soluzione patologica a un conflitto identitario profondo: la difficoltà di separarsi, di riconoscersi come soggetto indipendente e di gestire i propri bisogni affettivi.
 L’anoressia e la bulimia diventano due facce della stessa medaglia: il tentativo di controllare e allo stesso tempo esprimere un dolore emotivo inespresso, utilizzando il corpo come linguaggio.

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 

Facebook: Social o manipolazione ?

  

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Nel gennaio del 2012 Facebook ha condotto un esperimento all'insaputa di circa 700.000 mila utenti: molti di loro sono stati esposti a "contenuti emotivi" delle pagine che osservavano di tipo fortemente positivo, altri a contenuti molto negativi.
A seconda dei contenuti osservati, le persone postavano commenti positivi o negativi come reazione a quanto letto. Era evidente un fenomeno ben conosciuto in psicologia come "contagio emotivo".
Quando venne pubblicato il risultato dello studio vi furono critiche e pesanti reazioni per tale esperimento, peraltro legale, su temi così delicati come l'etica e la privacy on-line.
Forse non tutti sanno che l'algoritmo sottostante a Facebook e che ci propone quotidianamente gli aggiornamenti, che vediamo scorrere nella nostra pagina si basa già su una serie di principi, totalmente automatizzati, stabiliti per dare priorità a uno o all’altro contenuto in base agli amici con cui entriamo più spesso in contatto o alla popolarità di uno stato o di una foto. Come dire, l'algoritmo ci indirizza già verso determinati contenuti, pensati per noi.
Nel caso dell'esperimento i ricercatori di Facebook hanno utilizzato il software Linguistic Inquiry and Word Count, ed i risultati hanno mostrato come la condivisione di emozioni positive ci porti ad esprimerne di altrettanto ottimistiche mentre vedere amici e conoscenti di cattivo umore ci condiziona in questo senso. 
Da notare che alla sottoscrizione di Facebook noi tutti accettiamo le condizioni di questo servizio e le relative profilazioni. Quindi nulla di illegale, ma credo che ben pochi di noi siano consapevoli di quello che sottoscrivono: poi gli algoritmi che diavolo sono? Mi risponda chi lo sa e ne conosce l'utilizzo. Facebook cambia il suo algoritmo quando e come vuole senza doverci chiedere ulteriore assenso tacito o esplicito.
E' anche vero che nel 2012 oltre 340.000 persone si sono recate a votare in elezioni del Congresso Americano dopo avere letto commenti di amici su Facebook, orientati in un senso o nell'altro (Democratici o Repubblicani) e qui non si parla di scegliere una bevanda o un hamburger ma si tratta di "comunicazione politica".
Va detto che il gruppo di ingegneri di Facebook ha lavorato in collaborazione con ricercatori delle Università della California e della Cornell, stupiti per le reazioni della stampa e dei media in generale per tale "ricerca". Gli ingegneri di Facebook hanno manipolato l'algoritmo per orientare le reazioni e studiare l'effetto sugli ignari lettori, senza chieder alcun permesso o scusarsi poi. Ad onore del vero uno degli ingegneri, tale Adam Kramer, membro della squadra di analisi dei dati di Facebook e fra gli autori dello studio ha detto che lo scopo della ricerca era rendere migliore il servizio e si è mostrato:  "... Dispiaciuto per l'ansia causata nei lettori". Come dire che lo studio è stato fatto per i lettori e non c'è motivo di non credere alla buona fede di Facebook.

E voi cosa ne pensate...?

Aggiornamento di settembre 2012: su un server ad accesso libero sono stati trovati i dati di 419 milioni di utenti Facebook, account e numeri di telefono. Facebook, interpellata, ha minimizzato la cosa e assicurato che ora tutto è sotto controllo e non accadrà più. 

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Il "bene" vince sempre sul "male"...?

  

© Copertina libro Raffaello Cortina Editore
Cosa succede se si mette della brava gente in un posto “cattivo”? Riuscirà il bene a vincere sul male o, piuttosto, trionferà il male? Può una persona buona commettere atti malvagi? Qual è il limite attraverso il quale nelle persone si scatena il male? Sono le situazioni in cui veniamo posti che determinano il nostro comportamento?


Nell'anno 1971 lo psicologo Philip Zimbardo (di origini italiane), docente all'Università di Stanford ideò un'esperimento che intendeva riprodurre una situazione carceraria con dei volontari per studiare il loro comportamento. Nei sotterranei di un edificio fu ricostruito un carcere ove fare interagire 24 studenti universitari per svolgere i ruoli di detenuti e guardie. Tutti i ragazzi vennero intervistati e sottoposti ad una batteria di test di personalità al fine di eliminare quelli con problemi psicologici, malattie o precedenti criminali e/o di abuso di droghe. I volontari decisero di partecipare per un periodo di due settimane in cambio di 15 dollari al giorno. 12 diventarono guardie carcerarie, gli altri 12 i loro prigionieri. In questo esperimento non c’erano mezze misure; affinché lo studio potesse essere efficace, doveva avvicinarsi il più possibile all’esperienza reale dei prigionieri e delle guardie.
I “prigionieri” vennero arrestati e prelevati con una macchina della polizia a sirene spiegate, mentre svolgevano le loro attività quotidiane. Poi furono loro rilevate le impronte digitali, furono bendati e messi in una cella, spogliati e perquisiti. Venne loro data una divisa e un numero.
Gli altri partecipanti vennero trasformati in guardie e perciò vestiti in uniforme e dotati di manganello.
Ogni cella ospitava tre prigionieri e comprendeva tre lettini. Altre camere erano utilizzate per le guardie carcerarie. Uno spazio molto piccolo era designato come la camera di isolamento “il buco”, e un’altra piccola stanza serviva da cortile della prigione. Zimbardo e collaboratori osservavano il comportamento dei prigionieri e delle guardie con telecamere nascoste e microfoni. 
Dopo solo due giorni dall'inizio dell'esperimento accaddero i primi episodi di violenza tra i "detenuti" e le "guardie". Scontri sia verbali che fisici, intimidazioni ed umiliazioni. I detenuti spesso non obbedivano agli ordini ed alle consegne delle guardie che erano sempre più aggressive e sadiche nei confronti dei prigionieri. Al quinto giorno vi fu una rivolta da parte di alcuni prigionieri e la rappresaglia delle guardie fu rapida e brutale: vennero rimossi i letti dalle celle, i "rivoltosi" furono sbattuti in isolamento e tutti i “prigionieri” incominciarono ad essere picchiati. Al sesto giorno la situazione stava volgendo al dramma. Sconcertato, Zimbardo decise di interrompere immediatamente l'esperimento. 
Ma a quali effetti erano andati incontro le persone coinvolte?
I giovani che precedentemente all’esperimento si erano dichiarati pacifisti, nel loro ruolo di guardie, umiliarono e aggredirono fisicamente e verbalmente i “prigionieri”; alcuni di essi addirittura segnalarono piacere nel farlo.
I “detenuti", nel frattempo, cominciarono rapidamente a mostrare i classici segni del crollo emotivo, assomigliavano a prigionieri di guerra o pazienti di un ospedale psichiatrico. 
Lo stesso Zimbardo ammise di essersi immerso nel ruolo di “direttore della prigione”. Uno dei risultati più importanti dell'esperimento fu proprio la sua personale trasformazione in una figura istituzionale rigida; una figura più interessata alla sicurezza della sua prigione piuttosto che al benessere dei suoi partecipanti. Zimbardo stava perdendo il contatto con la realtà, la "prigione" era divenuta la sua realtà e lui si stava trasformando in Lucifero! Alla divulgazione dell'esperimento vi furono molte critiche, venne anche definito immorale. Al di là del giudizio sull'esperimento, però occorre porsi qualche interrogativo: in quale momento od in quale situazione una persona "normale" attraversa il confine tra il bene ed il male? Scrive Zimbardo: 
Possono avvenire trasformazioni del carattere umano in nuove  “situazioni sociali”, in cui le forze situazionali sociali sono sufficientemente potenti da riuscire a sopraffare, o a sopprimere temporaneamente, attributi personali di moralità, di compassione, o senso di giustizia.
Studi successivi (Penitenziario USA di Rikers, 1995) hanno cercato di comprendere come le guardie possano non percepire sensi di colpa derivanti dalle violenze inflitte ai detenuti. Alcune guardie non si rendevano davvero conto della tragica trasformazione in aguzzini, sul posto di lavoro. In quel carcere i livelli di violenza contro i detenuti erano così alti che molte guardie furono ufficialmente accusate di aver inflitto gravi aggressioni ai prigionieri e condannate a pesanti pene.
Molti ricorderanno le drammatiche immagini della prigione di Abu Ghraib, soldati e soldatesse che umiliavano e torturavano i prigionieri, con tanto di foto e selfie mettendosi in posa e sorridendo...
lo stesso Zimbardo suggeriva che gli abusi di Abu Ghraib potrebbero essere stati esempi reali degli stessi risultati osservati nel suo esperimento. Non a caso nel 2004 in qualità di perito partecipò al processo contro i militari americani colpevoli delle vessazioni sui prigionieri nel famigerato carcere iracheno.
Scrive Zimbardo nel suo libro:
Il male è l’esercizio del potere di nuocere intenzionalmente (psicologicamente), di procurare dolore (fisicamente), o distruggere (mortalmente o spiritualmente) altri. Solo poche persone sono in grado di resistere alla tentazione di cedere al potere e al dominio"

 

Philip G. Zimbardo, L'effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008