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Fin dall’infanzia, Giulia ha imparato che l’amore e l’approvazione passano attraverso la prestazione (essere brava, controllata, ordinata, “giusta”). Non è mai stata incoraggiata a esprimere rabbia, tristezza o fragilità. Le emozioni, soprattutto quelle negative, sono vissute come pericolose e da reprimere.
Giulia è sempre stata una studentessa diligente, perfezionista e sensibile al giudizio altrui. Ha mostrato tratti di ansia da prestazione e bassa autostima, con una tendenza al controllo come modalità di gestione delle emozioni. Durante l’adolescenza ha subito alcuni episodi di derisione da parte dei coetanei per il suo corpo (“un po’ in carne”), che hanno inciso profondamente sulla percezione di sé. Giulia inizia a sperimentare insicurezze legate al corpo e al confronto sociale. Le prime diete nascono da un bisogno di riconoscimento e di controllo, ma si trasformano progressivamente in un mezzo per gestire il vuoto emotivo e l’angoscia. Il corpo diventa il terreno su cui si esprime una tensione interna tra desiderio di autonomia e bisogno di approvazione.
L’esordio “ufficiale” del disturbo risale ai 18 anni, in concomitanza con un periodo di stress legato alla maturità scolastica. Inizialmente Giulia ha iniziato una dieta “per sentirsi più in forma”, riducendo progressivamente l’apporto calorico e aumentando l’attività fisica.
La restrizione alimentare e il dimagrimento progressivo offrono a Giulia una sensazione di potenza e padronanza: il controllo del corpo sostituisce la percezione di controllo sulla propria vita. Il cibo negato diventa simbolo di autonomia e purezza, mentre la fame diventa una forma di autodisciplina estrema.
Dopo mesi di restrizione, Giulia inizia a vivere episodi bulimici. Questi rappresentano il collasso del controllo e l’irruzione di parti psichiche scisse e represse.
Nelle sedute ci racconta che: “…Le abbuffate esprimono un bisogno affettivo e orale non riconosciuto, un tentativo di “riempire” il vuoto interiore con il cibo, simbolo di nutrimento e amore.”
Non solo, Giulia ricorre anche al vomito quando cede alle abbuffate. Il vomito auto-indotto diventa il gesto purificatore: ciò che è stato introdotto viene espulso per non essere contaminata, né fisicamente né emotivamente.
Questo ciclo (riempire e svuotare) riflette la dinamica tra bisogno di fusione e terrore della dipendenza. Giulia desidera essere accolta, ma teme di perdere sé stessa se si lascia nutrire o amare.
Il corpo, per Giulia, non è solo un oggetto estetico, ma il campo di battaglia della sua identità. Attraverso il peso, la fame e il vomito, costruisce un linguaggio corporeo che traduce conflitti psichici profondi:
Nel corso delle sedute verbalizza che: “Esisto solo se riesco a controllarmi e più dimagrisco più valgo”
Il cibo per Giulia ormai non è più nutrimento, ma mezzo di regolazione affettiva ed il corpo diventa, in senso simbolico, il luogo in cui si manifesta la difficoltà di integrare mente ed emozioni, desiderio e colpa, autonomia e bisogno.
Il lavoro terapeutico permette di affrontare la mai risolta ambivalenza verso la madre: Giulia idealizza e nel contempo rifiuta la figura materna, vorrebbe essere come lei ma capisce che ha bisogno di distaccarsi per vivere la sua vita.
Non solo, il feroce controllo del cibo e del corpo, con i successivi cedimenti bulimici, ci dicono quanto la sua identità sia fragile. Nelle mente di Giulia fame e sessualità sono vissute come pericolose e vanno negate.
Giulia in seduta ricorda le difficoltà che aveva la madre per farla mangiare sin da piccola: bizzarri rituali per darle il cibo con il cucchiaino, con la mamma sempre nervosa al momento del pranzo o della cena.
Quindi una relazione primaria con la madre tramite il cibo vissuto come campo di battaglia piuttosto che momento emotivamente rassicurante e contenitivo.
Partendo da questi ricordi di Giulia possiamo affrontare l’ambivalenza nei confronti della madre, lavorare sulla separazione psichica delle due donne e nella costruzione di un’identità autonoma della giovane.
Un passaggio importante per Giulia é anche riconoscere e tollerare le proprie emozioni, soprattutto rabbia e bisogno di dipendenza, senza agire attraverso il corpo sia con il controllo anoressico che con il “cedimento” bulimico.
Anche un accompagnamento “reale” sul tema del cibo, ovvero prepararsi il mangiare, cucinarlo ed assumerlo, con consapevolezza e ritrovata pacificazione, aiuta Giulia a non confondere il cibo con le emozioni…
Nel caso di Giulia, il disturbo alimentare appare come una soluzione patologica a un conflitto identitario profondo: la difficoltà di separarsi, di riconoscersi come soggetto indipendente e di gestire i propri bisogni affettivi. L’anoressia e la bulimia diventano due facce della stessa medaglia: il tentativo di controllare e allo stesso tempo esprimere un dolore emotivo inespresso, utilizzando il corpo come linguaggio.
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