Featured Slider

Bilinguismo: una risorsa o un ostacolo?

© APSI

Condivido uno scritto della collega Cinzia Crosali dell'APSI, sempre sul tema del bilinguismo.

Bilinguismo: una risorsa o un ostacolo?

Tra i consueti timori di inizio d’anno scolastico dei connazionali che vivono in Francia, o comunque all’estero, c’è un interrogativo frequente: “parlare due lingue, è un vantaggio o uno svantaggio nel processo dell’apprendimento?”

Sono soprattutto i genitori dei bambini più piccoli a porsi questo interrogativo.  Esporre un bambino piccolo a più idiomi che conseguenze può avere? Il bilinguismo è una ricchezza o un inciampo nello sviluppo del linguaggio e quindi per l’evoluzione cognitiva?

Prima di tutto: che cos’è il bilinguismo?  E’ considerato bilingue colui che padroneggia due o più lingue con le stesse competenze e capacità di una persona madrelingua. È questa la caratteristica di bambini cresciuti in ambienti in cui l’uso di più lingue è simultaneo.  

Bilingui sono quindi gli individui che hanno due sistemi linguistici paralleli e indipendenti e che non hanno bisogno di tradurre da una lingua all’altra.

Il linguista Renzo Titone definisce il bilinguismo come “la capacità di un individuo di esprimersi in una seconda lingua aderendo fedelmente ai concetti e alle strutture che a tale lingua sono propri, anziché parafrasare la lingua nativa”(1). La sua analisi del fenomeno lo porta a distinguere fra : bilinguismo bilanciato e no, bilinguismo primario e secondario, precoce o tardivo, ecc. (2)

Molteplici sono le distinzioni perché il bilinguismo è un fenomeno complesso e multifattoriale in cui entrano in gioco variabili diverse: l’età di acquisizione, le interferenze, le dominanti, i registri linguistici, i contesti, gli aspetti cognitivi, culturali, familiari, i fattori emotivi e psico-affettivi.

La domanda che genitori e insegnanti si pongono riguarda i rapporti del bilinguismo con lo sviluppo e con l’apprendimento. Si chiedono se l’interferenza di una seconda lingua ostacoli i processi cognitivi. La nostra risposta è “no, anzi!”. Le ricerche tendono a confutare questa ipotesi di interferenza negativa.  

Nei soggetti bilingui e multilingui si sono riscontrati risultati superiori a livello cognitivo e mnestico (3).  Per esempio nelle prove piagetiane della ricostruzione percettiva, nella individuazione di correlazioni simboliche, nella risoluzione di problemi logici, i soggetti bilingui produrrebbero migliori prestazioni.  

Essi avrebbero, a loro vantaggio, una maggiore plasticità del pensiero e quindi una maggiore flessibilità delle funzioni cognitive. Questo sembrerebbe sfatare il pregiudizio inerente a interferenze  prodotte dall’introduzione di una seconda lingua nella prima infanzia.

Naturalmente tutto questo è vero in caso di bambini che non presentino ritardi dello sviluppo psicofisico, o problematiche affettive tali da ostacolare la crescita e la relazione con il mondo esterno, indipendentemente dal bilinguismo.

Noi riteniamo che, esclusi i casi sopra citati, i bambini bilingui capendo rapidamente che esistono più suoni, più parole per indicare una cosa, imparano fin da piccoli ad avere una visione pluridimensionale della realtà, e ad acquisire un relativismo nominale e quindi una maggiore disponibilità al nuovo, alla diversità e alla relatività in generale.

Passare da una lingua all’altra è una ginnastica automatica che bambini molto piccoli sanno fare con sorprendente abilità, infatti essi si rivolgono in modo spontaneo ad adulti di diverso idioma, usando la lingua appropriata, quella con cui l’adulto parla loro.

Così se i genitori sono di madrelingua differente, il bambino userà spontaneamente le due lingue in modo alternato e pertinente.  La lingua infatti non viene dal bambino, ma dall’adulto. Il bambino la restituisce. Jacques Lacan diceva che il linguaggio ci precede, nel senso che noi nasciamo in un bagno di linguaggio che esiste prima di noi.

Una madre italiana mi ha raccontato che il suo bambino di tre anni, dopo aver parlato al telefono in francese al padre, ritornando spontaneamente a parlare in italiano alla madre che lo teneva in braccio, esclamò: “che bello, una lingua viene su e un’altra va giù!”, toccandosi la sua lingua in bocca.  

Non poteva esprimere meglio la teoria lacaniana: più che parlare, il soggetto “è parlato” da una lingua.  È come se il bambino non decidesse, ma si trovasse a parlare con la lingua dell’altro, e ne fosse lui stesso piacevolmente sorpreso.

Inoltre l’apprendimento secondario di una lingua straniera non sembra essere correlato all’intelligenza. Persone con alto livello intellettivo possono avere difficoltà e resistenze ad imparare le lingue straniere. I fattori ostacolanti non sono quelli intellettivi, si tratta piuttosto di fattori ansiogeni, affettivi, di inibizione, di identificazioni valorizzanti o svalorizzanti, ecc…  Una parola nuova implica un riassetto globale delle reti associative e dell’investimento affettivo.

Ricordiamo che Levi-Strauss, diceva che non pensiamo alla stessa cosa quando usiamo, in due lingue diverse, due parole che vogliono tuttavia dire la stessa cosa. Per esempio scriveva:  

“Per me che ho parlato esclusivamente inglese per certi periodi della mia vita, pur senza essere bilingue, fromage e cheese vogliono certo dire la stessa cosa, ma con sfumature differenti. Fromage evoca una certa pesantezza, una materia untuosa e poco friabile, un sapore denso.

È una parola particolarmente adatta a designare quel che i lattai chiamano ‘paste grasse’; mentre cheese, più leggero, fresco, un po’ aspro e che svanisce sotto i denti (si pensi alla forma dell’orifizio boccale nella pronuncia della parola), mi fa immediatamente pensare al formaggio bianco. Per me il ‘formaggio archetipo’ non è dunque, a seconda che io lo pensi in francese o in inglese, il medesimo” (4) (Lévi-Strauss 1958:110).

La traduzione non è fatta di rapporti biunivoci regolati una volta per tutte dal dizionario bilingue, ma comporta una complessità di variabili percettive, mnestiche, sensoriali e affettive che sono diverse da individuo a individuo.  

Anche l’esperienza di vita di chi impara una seconda lingua ha un ruolo essenziale: non è la stessa cosa l’apprendimento del francese per i nostri ragazzi italiani trasferiti con la famiglia a Parigi, rispetto alle condizioni di apprendimento delle nuove lingue da parte dei migranti profughi nordafricani o mediorientali, che arrivano in continuazione in Europa.

Le parole trasmettono sapori, sensazioni, emozioni, ricordi, ma non dimentichiamo che sono fatte di sonorità. Hanno una risonanza, sono fatte di suoni, le parole hanno una forma acustica, sono fonemi che scivolano da una lingua all’altra tendendo trabocchetti di significati e sovrapposizioni.

Mi riferisco al problema delle interferenze che avvengono tra lingue che si assomigliano come l’italiano e il francese. Gli insegnanti di lingua straniera conoscono l’incidenza dei cosiddetti “falsi amici” nell’apprendimento delle lingue.

Tra il francese e l’italiano essi sono numerosi e creano spesso equivoci e malintesi, o anche situazioni imbarazzanti, come quella che accadde a un ragazzo italiano, che corteggiando una ragazza, le disse: “ta peau est si morbide !”(5), e rimase stupito della smorfia di disappunto della fanciulla.

Parole francesi come morbide, caleçon, cantine, costume, ferme, salir, gâteau…  e tante altre, se usate maldestramente, possono creare situazioni comunicative fastidiose o divertenti a seconda del contesto.

La psicoanalisi, in quanto pratica centrata sul linguaggio, si è naturalmente interessata al bilinguismo. Anzi si può dire che l’invenzione di Freud è proprio basata sull’analisi di una “lingua straniera”: la lingua dell’inconscio. Una lingua che occorre decifrare e tradurre ogni volta che si presenta nelle sue produzioni bizzarre: i lapsus, gli atti mancati, i sintomi, i sogni…

E’ interessante chiedersi perché per alcune persone imparare una lingua straniera è relativamente facile e per altre quasi impossibile. Che cosa significa “essere o non essere portati per lingue”. Si tratta di una disposizione innata o dipende dal contesto di crescita?  

Noi pensiamo che imparare una lingua straniera significhi accettare di cedere, di perdere qualcosa. L’adulto che impara una lingua straniera ha la sensazione di regredire a una condizione infantile, una sensazione che può produrre insicurezza e resistenza.

Opporsi alla lingua straniera diventerebbe un modo di difendere la propria identità profonda, come se questa fosse esprimibile soltanto attraverso la lingua madre. Infine i processi di individuazione e separazione che avvengono nel rapporto tra il bambino e la figura materna, non sono estranei al rapporto del bambino con il linguaggio in generale, e con l’apprendimento delle lingue straniere in particolare.

Imparare a parlare significa far passare le soddisfazioni pulsionali sotto le forche caudine del linguaggio. Non si è più nutriti, scaldati, curati, automaticamente, ma bisogna chiedere, domandare, parlare.  La frustrazione e la fatica che ciascuno ha dovuto attraversare per imparare a parlare è rinnovata nell’apprendimento della seconda lingua.  

Qualche volta invece, la seconda lingua diventa un salvagente, una risorsa che permette di fuggire da un nucleo ansiogeno troppo forte, contenuto nell’uso della lingua madre.

Nel mondo delle lingue comunque il fattore affettivo è sempre presente, perché parlare significa essere in relazione, confrontarsi con l’altro. Il fattore affettivo è quindi il cardine dell’identificazione, della fiducia in sé stessi, del coraggio di correre rischi in ogni forma relazionale, il fattore affettivo in definitiva è ciò che permette, come diceva quel bambino di tre anni, che, “una lingua vada giù e che un’altra venga su”, in modo spontaneo e disinibito.

Di Cinzia Crosali


Equilibrismi tra le lingue

© APSI

Condivido lo scritto della collega Cinzia Crosali dell'APSI sul tema del bilinguismo.


Per noi italiani che viviamo in Francia, l’equilibrismo tra le due lingue è quotidiano. Anche se la conoscenza del francese è perfetta, accade sempre che una parola, un’espressione, un modo di dire italiano si imponga nella frase e ci risulti intraducibile.  

A volte invece è un’immagine linguistica francese che non trova un suo corrispondente nella lingua italiana. 

Cerchiamo allora il corrispettivo meno lontano, quello che si adatta di più, ma restiamo scontenti, qualcosa non ci soddisfa, ci lascia con un senso d’incompletezza e di frustrazione. Non è propriamente il significato a deludere, quanto la tonalità, il colore, la materialità stessa della scelta linguistica.

Ne sanno qualcosa i traduttori, che, quando fanno in modo appassionato il loro lavoro, vivono momenti di profonda indecisione, sempre sul bordo di un tradimento nei confronti della lingua da tradurre.

L’analogia che avvicina l’atto del “tradurre” con quello del “tradire” è largamente conosciuta. Qualcosa di passionale e intimo è, infatti, all’opera.

Un’amica traduttrice che lavora con un gruppo di colleghi professionisti, mi raccontava recentemente quanto siano accese le discussioni tra i traduttori del suo gruppo di lavoro.

Quando non si trova l’accordo su una scelta linguistica facilmente si arriva a litigare anche in modo aspro.  Nessuno vuole cedere o fare concessioni all’altro; a volte le dispute sulla scelta delle parole, sulla sintassi e sullo stile diventano così violente da rendere impossibile la continuazione del lavoro.   

Pare proprio che qualcosa di molto intimo e prezioso sia messo in gioco.  Di che cosa si tratta? A che cosa non si vuole rinunciare? Quale punto insopportabile viene toccato?  

Lo psicanalista Jaques Lacan aveva chiamato questo qualcosa di intimo e prezioso: “la  lalangue” e diceva che essa non ha niente a che vedere con il dizionario. Essa è più vicina al balbettio iniziale del soggetto parlante, alla lallazione del lattante, alla primordiale forma ed emozione che la lingua madre ha assunto per ciascuno di noi quando siamo entrati nel linguaggio, all’inizio della nostra vita.  

Se la traduzione è così difficile e dolorosa è perché ogni parola deve essere estirpata dalla “lalangue” della prima lingua per trovare un corrispondente nella seconda lingua della traduzione.  

Una parola della lingua materna deve essere lasciata andare, lasciata cadere, deve essere strappata alla sua familiarità, al fascino e al senso di completezza che dà questa familiarità.  Una separazione da un’intimità è allora in atto.

E’ questa l’operazione difficile della traduzione, si tratta di un’operazione in cui devo rinunciare all’intimità rassicurante di una parola della mia lingua, devo separarmi da essa, e questo quando la parola corrispondente della seconda lingua non è ancora a mia disposizione: tante parole si affacciano e mi si propongono, ma nessuna per un breve momento è utilizzabile.

Si tratta di un istante di vacillamento, di un impercettibile momento di assenza di “bordo”. Ci si stacca da una riva, ma l’altra riva non è ancora a portata di mano.

C’è dunque un istante vuoto, che implica una separazione, un taglio, una vertigine. Poi la parola della seconda lingua prende forma, s’impone, s’iscrive: l’altra riva è toccata. Ho cercato di descrivere al rallentatore un processo mentale che avviene in modo automatico, quasi inconsciamente, ma che non è indolore.

Chiunque abbia cercato di tradurre una poesia, o una canzone sa quanto grande sia l’impotenza frustrante, di rendere con fedeltà la materialità e la sonorità di un verso o di un’immagine poetica.   

Quando poi riusciamo ad approdare ad una traduzione che ci piace c’è una vera giubilazione, non si tratta di una semplice traslazione da dizionario, ma di un vero atto di creazione con tutto il piacere che ogni creazione comporta.

Nelle sedute psicanalitiche con persone italiane che vivono in Francia le due lingue spesso si sovrappongono, alcune parole si contaminano, altre fanno “a pugni” per imporsi.  

La fatica di imparare il francese al momento della migrazione o del trasferimento, è ricordata da tutti come un’intima sofferenza.

Un paziente venuto in Francia all’età di 30 anni, negli anni cinquanta, mi raccontava come gli fosse penoso allora non accedere al motto di spirito nella nuova lingua.

Al suo paese, in Italia, era considerato un brillante umorista; animatore di serate e convivi, sapeva raccontare barzellette e storielle con estrosità e brio. Arrivato in Francia tutti i suoi tentativi di tradurre in francese il suo repertorio di battute umoristiche fallivano miseramente e la sua stessa posizione e identità nel gruppo dei pari ne risultavano compromesse e frustrate.

Il motto di spirito, infatti, è talmente cementato alla materia linguistica da cui è costruito, da opporsi ad ogni tentativo di traduzione, salvo a cadere nel ridicolo.

 Un altro elemento che resiste alla traduzione automatica è l’atto del contare: anche dopo molti anni di vita in Francia, continuiamo quasi tutti a contare mentalmente in italiano, ritrovando nel numero e nella quantità il nocciolo duro e indistruttibile della forza della lingua madre.   

Alcuni miei pazienti che parlano preferibilmente in francese, ricorrono istintivamente all’italiano per rievocare un ricordo d’infanzia, una scena familiare o un sogno remoto.

E’ soprattutto nei sogni che si formano i neologismi più interessanti; il lavoro della “condensazione” e dello “spostamento” non vale solo per le immagini oniriche ma si gioca, attraverso formidabili creazioni, anche sulla lingua, creando sorprese e giochi di parole rivelatori delle verità intime del soggetto. 

Siamo noi i creatori dei nostri sogni, essi dovrebbero almeno insegnarci a recuperare le capacità inventive che, quando l’inibizione è addormentata, ci permettiamo.  

Questa libertà ci servirebbe forse a trovarci un po’ più a nostro agio non solo nella lingua straniera, ma nella lingua tout court, nell’atto di parola, che, per ogni soggetto, in qualsiasi lingua si produca, è sempre un momento straordinario di rischio e di emozione. 

 

Cinzia Crosali

Tra italiano e francese: una lingua dell'amore

© APSI
Condivido il testo della collega dell'APSI, Eleonora Renna, sul tema della lingua materna e della lingua francese. Buona lettura.
 
Senti che musica ci canta Gino Paoli: “Sapore di sale, sapore di mare. Che hai sulla pelle, che hai sulle labbra…” C’è nella lingua materna questa sensazione dell’amore in bocca, cioè un sapore di qualcosa di perso che è ritrovato.

Ognuno ha nelle orecchie il sapore dell’amore di quelle parole sentite da bambini e che ci colpisce ancora oggi nel punto più profondo del nostro essere. La lingua materna ha questa funzione di emozionarsi ogni volta, sempre più.

Per ogni italiano in Francia, l’incontro con quest’altra lingua, il francese, costringe allora a separarsi della sua lingua materna e del suo sapore che manca. Ma come ritrovare questa sensazione dell’amore con questa lingua straniera?

Quando si vive in Italia, si parla insieme con lo stesso linguaggio ch’è l’italiano.

Al di là del comunicare, ciascuno trova nel linguaggio che condividiamo tutti, le parole dove ci mettiamo le nostre rappresentazioni e identificazioni simboliche come soggetto dell’Altro della stessa cultura: ognuno si racconta la sua storia con l’italiano che serve finalmente da linguaggio per pronunciarsi.

Basta parlare per dire quello che siamo con le stesse parole che non mancano, così nella stessa lingua che si parla crediamo di capirci tutti.

La lingua straniera come lingua dell’Altra cultura, ci spinge allora a sperimentare una lingua dove non si può farsi capire, perché mancano le parole per pronunciarsi. Sentirsi straniero alla lingua che si parla può provocare un sacco di manifestazioni sintomatiche che ci fanno soffrire nel parlare: colpa, vergogna, malessere, vertigini, dispnea, etc.

Emozioni straniere ovviamente preoccupanti da non tenere la lingua a posto, “è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato”[1]: qualcosa si dice! La lingua francese come lingua dell’Altra cultura ci può svegliare da un’emozione che si sa ma che non ha più voce.

Da restare senza parole ci lascia da solo: mi manca casa. Questa esperienza della solitudine con il francese come altra lingua convoca allora ognuno alla ricerca di “Chi sono?”, quando essere straniero vuole dire non essere più a casa. Come trovare nella lingua straniera un posto da pronunciarsi? Ognuno si mette per questo al lavoro!

Così lontano, così vicino, italiano e francese non vanno d’accordo: c’è con la lingua francese un altro modo di dire, un altro modo di dirsi.

Pronunciarsi con questa lingua dell’altro è tutta un’altra logica perché con la lingua francese non si legge come si scrive. Lettere mute, lettere fantasma, lettere eccezionali, l’italiano deve abituare l’orecchio alla trascrizione fonetica per imparare un’altra musica da sentire con suoni sordi e pochi familiari che si trovano a contatto con l’intraducibile.

La lingua dell’altro che si deve parlare diventa allora un ideale da essere, per trovare un posto da rappresentarsi e identificarsi come soggetto dell’Altra cultura ma c’è sempre il sapore della lingua materna che manca: non si può tutto tradurre.

Prendere tutto il posto dell’altro diventa allora impossibile soprattutto quando finalmente l’altro sei tu. Infatti, molti italiani spiegano che dopo tanti anni passati in Francia sono ridotti a essere: italiano in Francia e francese in Italia.

Prendere la parola con questa lingua dell’altro ha un prezzo, la presenza che una parte di te è assente: tuttavia “lo spero”! Da diventare un altro, mi manca ancora casa. Quell’intraducibile dell’essere ci lascia allora con la musica di: “un gusto un po’ amaro di cose perdute. Di cose lasciate lontano da noi dove il mondo è diverso, diverso da qui…” come continua a cantare Gino Paoli.

Quindi questa esperienza di essere tra due lingue dà luogo a una nuova lingua dove può nascere l’amore: quando l’una viene a mancare, l’altra ti risponderà.

Essere non tutto italiano e non tutto francese dà dunque a l’uno con l’altro un posto per ritrovare questo sapore dell’amore: “dei giorni, che passano pigri e lasciano in bocca, il gusto del sale. Ti butti nell’acqua e mi lasci a guardarti e rimango da solo, nella sabbia e nel sole”. Ci senti? Infatti, “per amare, si deve ammettere la mancanza e riconoscere che hai bisogno dell’altro, che ti manca l’altro […] chi possiede la risposta, o una risposta, alla tua domanda: “Io chi sono?””[2].

Si può dire che essere non tutto francese e non tutto italiano apre allora verso una lingua dell’amore, dove francese e italiano si intrecciano per rispondersi a vicenda.

Numerosi sono gli italianismi degli italiani che possono infiltrarsi quando si parla francese. Un modo di fare e dunque di dirsi all’italiana che viene in più con questa musica intraducibile della lingua materna che ci riviene e che colpisce il cuore.

Nella lingua italiana che si parla la pronuncia si fa con un accento “libero” dove le parole non sono tutte soggette alla stessa regola come nella lingua francese dove l’accento è fisso per tutti. Il canto del fraseggio italiano punta il movimento dell’intensità e dell’espressione dei suoni dell’intraducibile della lingua materna. Da interpungere il senso, si può sentire la musica!

Ognuno compone allora con una voce da suonare che gli dà in più il francese per aprire, uno ad uno, a nuovi significati per nuove sensazioni. Comunque, l’italiano ha questo senso del ritmo dell’intraducibile che ci lascia il cuore sulle labbra e le parole che possono con la lingua francese slittare: questo sapore dell’amore perduto è ritrovato.

Quindi la lingua dell’impossibile si riduce a pronunciarsi con questa voce che tu solo puoi avere e che ci canta: “Sono quello che suono”.

Questo punto d’incontro con l’intraducibile tra italiano e francese, tocca una lingua che ci dà un sapere in più.

Nel finire le frasi a vicenda, si può inventare una lingua dell’amore. Essere fatti l’uno per l’altro è allora un modo di dire con la voce: non gli manca la lingua! Vai Gino Paoli con la musica: “Poi torni vicino e ti lasci cadere. Così nella sabbia e nelle mie braccia. E mentre ti bacio, sapore di sale, sapore di mare, sapore di te!”

Di Eleonora Renna


[1]Freud S., “Il preoccupante” in Saggi sull’arte la letteratura e il linguaggio, Torino, Boringhieri, 1969, p. 275

[2]Miller J.-A., Intervista in Psychologies Magazine, n°278, 2008. [traduzione libera del traduttore].

Storie di bilinguismo: evento APSI

 

 

L'APSI organizza questo interessante evento a Parigi. 

 

La ricchezza del bilinguismo o del plurilinguismo e oggi innegabile, eppure questa danza delle lingue, nella parola e nel pensiero di noi espatriati, è sempre fonte di riflessioni e di questioni.

Noi vogliamo interrogare il bilinguismo dal punto di vista clinico, a partire dalla nostra esperienza di psicologi italiani in Francia, confrontati nel nostro lavoro a una pluralità di realtà linguistiche, e consapevoli che la scelta della lingua da usare in un’analisi o in una psicoterapia non è mai casuale e tocca quella materialità della parola che ci è cara nel nostro lavoro quotidiano con i pazienti.

Vogliamo inoltre dialogare con scrittori e artisti, ma anche con un pubblico più vasto: con genitori espatriati che ancora, a volte, ci chiedono se il bilinguismo sia un ostacolo o uno stimolo nello sviluppo psico-cognitivo del loro bambino.

Vogliamo dialogare con gli insegnanti e gli educatori, con i giovani, gli studenti, gli adulti e gli anziani italiani che vivono in Francia.

La lingua madre ha per ciascuno di noi un valore singolare che varia a seconda della nostra storia, dell’epoca della nostra emigrazione, del contesto sociale e culturale dove viviamo.

Vogliamo riflettere sul bilinguismo italo-francese, ma anche sul plurilinguismo in generale, dal punto di vista clinico e a partire dagli affetti, dalle inibizioni, dalle nevrosi, dalle paure, dalle emozioni, che orientano e colorano il nostro modo di essere e di costruire i legami sociali.

Vi aspettiamo numerosi per condividere con noi le vostre esperienze e le vostre storie di italiani in Francia, bilingui esperti, principianti o in potenza.

Cinzia Crosali


 

Il panico e la paura di Aldo

Foto di Andrzej da Pixabay

Aldo è un appassionato di Aikido, arte marziale giapponese che ha praticato a Roma per tanti anni. Al suo trasferimento a Parigi continua la sua pratica presso un centro della capitale e frequenta la palestra quattro volte alla settimana ed il sabato da una mano con i giovani allievi, su richiesta del suo Maestro. E' molto apprezzato ed assai preparato tecnicamente anche per la sua permanenza di quasi un anno in Giappone presso un Maestro che è una leggenda dell'Aikido. In Italia aveva lavorato come autista di bus di linea nella sua Roma, lavoro troppo stressante a turni che gli rendeva difficile frequentare la palestra. Su indicazione di un allievo decide di traferirsi in Francia per divenire autista Uber a Parigi. Quando non lavora è in palestra, sua passione e vita.

Aldo è un bel ragazzo, fisico asciutto e muscoloso, simpatico e solare. Sempre pronto ad aiutare gli altri sia in palestra che al di fuori, entusiasta e curioso. Il suo sogno è potere avere una piccola palestra e diventare insegnante di Aikido quando dovrà lasciare le competizioni.

Come tutti gli atleti spesso ha avuto incidenti e infortuni ma niente di serio, lividi e costole incrinate fanno parte del corredo del "Samurai".

Quando riesce a mettere da parte una certa somma, acquista un biglietto per tornare in Giappone e si iscrive ad "un Master" di perfezionamento di Aikido, propedeutico a farlo diventare insegnante della disciplina.

Mentre è in volo per il Giappone Aldo sente di non avere molto appetito, certo è l'emozione di tornare nel paese del Sol Levante per alcuni mesi e mangia svogliatamente.

Ma il peggio sta per cominciare (parole sue): ha nausea e dopo nemmeno mezz'ora deve correre in bagno a vomitare quel poco che ha mangiato. Aldo è bianco come un cencio, gli tremano le mani, il cuore va a mille e si sente in panico. Chiede aiuto ad un passeggero che gli offre due Xanax.

Al primo giorno di corso alla palestra con gli altri allievi al cospetto del Maestro, Aldo quasi non riesce a parlare per presentarsi, nuovamente è bianco come un cencio con il cuore a mille e sente un freddo esagerato.

Il Maestro lo invita ad uscire dal "materassino" mentre lo fa accudire dai suoi collaboratori. Ancora una crisi di angoscia, Aldo non si capacita di stare così male. 

Torna in stanza e deve chiamare il medico dell'hotel. Gli vengono prescritti farmaci ansiolitici per alcuni mesi di terapia. Per farla breve Aldo deve rinunciare al corso, non se la sente proprio di andare avanti. Vuole solo tornare a casa nemmeno a Parigi ma a Roma, dai genitori in pensiero per lui.

Rientrato a Roma si rinchiude in casa, deluso, sofferente e demoralizzato. Mai avrebbe pensato potesse capitare una cosa del genere a lui! Un suo allievo di Parigi gli indica il mio nome e "obtorto collo" ci sentiamo via Skype ma non è un incontro facile, Aldo sembra l'ombra di quel giovane atleta di Akido, solare ed entusiasta. Riesco "a convincerlo" a sentirci almeno qualche volta via Skype, poi si vedrà. Gli chiedo dei sogni ma non ricorda nulla, dorme come un piombo per via dei farmaci che assume. Sento di dovere essere molto più "interventista" di quanto auspicabile, credo che dopo qualche seduta Aldo avrebbe "lasciato il colpo" e smesso gli incontri.

Mi gioco la carta dell'Aikido. Marco, un mio cugino romano lo ha praticato per molti anni. Mi invento questo "atto": Marco si aspetta che Aldo lo chiami per parlare assieme, uso mio cugino come "medium" tra me e Aldo per mobilizzare qualcosa. Non ho certezza del risultato ma se non si tenta..!

Marco propone ad Aldo di incontrarsi di persona, si vedono a Roma in centro e parlano per un po'. Mio cugino mi riferisce che lo ha visto proprio spento, vuoto ed impaurito. IMPAURITO: mi colpisce questa acuta osservazione di Marco, impaurito di cosa, uno come Aldo che non dovrebbe avere paura di nulla...

Nel successivo Skype con Aldo lo interrogo, con decisione, sul tema della paura. Paura di cosa, tanto da avere un effetto così grande su di lui. Niente, non mi racconta nulla di pertinente e onestamente non so che fare, ammetto la mia impotenza e ne parlo con lui. A questo punto con grande esitazione Aldo mi confessa che mesi prima ha avuto dei rapporti con la ragazza delle pulizie della palestra ed è terrorizzato da quando lei gli ha detto in modalità "scherzosa" di fare il test dell'HIV dato che ha avuto tantissimi uomini...

Queste parole hanno avuto un effetto devastante su Aldo, si è sentito in trappola, fregato e ad un passo dal morire di AIDS, proprio lui che è sempre stato attento e cauto, ma con quella ragazza no...

Si è "tenuto dentro" ciò, con il terrore di essersi infettato, malato e di li a poco morire malamente di AIDS.

Finalmente Aldo ha sputato fuori il rospo! Ma è consapevole che dovrà affrontare la paura di fare il test e conoscere il "verdetto".

Ci lavoriamo un paio di mesi, mesi difficili, Aldo è molto ambivalente, alterna fiducia e speranza e momenti in cui si vede già morto, complice il fatto che ha perso qualche chilo di peso...

Gioco nuovamente la carta di mio cugino Marco che lo accompagnerà a fare il test in Ospedale e poi sarà con lui alla lettura dell'esito. Viene il "gran giorno" della consegna del referto che Aldo non ha il coraggio di guardare per primo, tocca a Marco aprire la busta... Il referto è negativo, Aldo non ha contratto l'infezione! Potete immaginare la gioia di entrambi, Aldo è contento come un bambino, non sta nella sua pelle ed abbraccia lungamente Marco.

Aldo rientra a Parigi e torna al suo "tran-tran" abituale, con una promessa a Marco: andranno assieme in Giappone per il Master di Aikido che Aldo non aveva potuto frequentare per gli attacchi di panico.

 

P.S. Lo scritto è redatto nel rispetto del Codice della Privacy, GPDP -  Regolamento UE 2016/679.

 

 


 

 


 

 

 



 



 




 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


Maurizio e Serena

Foto di Jean-Paul Jandrain da Pixabay

Maurizio e Serena sono cresciuti a Torino e si conoscono da molti anni, sin dai tempi del liceo. Hanno poi studiato entrambi Architettura, comune passione.

Per le note difficoltà ad avere dei contratti stabili in Italia decidono di trasferirsi a Nizza, che conoscono bene, ed iniziano a lavorare presso due studi di architetti italiani.

Alloggiano nello "studio" dei genitori di Serena, senza pagare affitto e nel giro di un anno con i loro stipendi possono considerarsi abbastanza a posto e cominciano a pensare al matrimonio.

Iniziano l'avventura delle nozze con tutte le incombenze del caso, ovviamente con la supervisione delle due mamme che come da tradizione intervengono a "gamba tesa" molto spesso. I genitori vorrebbero il matrimonio a Torino ma i due ragazzi si impuntano per celebrare le nozze a Nizza. Vada per Nizza, familiari ed amici verranno in Costa Azzurra per il loro matrimonio.

Preparativi frenetici, ormai la data è stabilita e mancano solo pochi mesi. Nel tempo libero Maurizio ama fare delle escursioni in bicicletta con un'associazione di appassionati come lui, nelle zone attorno a Nizza. Serena non è della partita, proprio non ama la bicicletta.

Tra le partecipanti alle escursioni in bicicletta c'è Corinne, una bella ragazza francese che non nasconde un certo interesse per Maurizio. Ella sa bene che lui sta per sposarsi ma non le importa.

Avrete già capito il seguito, a pochi mesi dal matrimonio di Maurizio i due hanno una fugace relazione.

Maurizio, pieno di sensi di colpa, dopo pochi incontri decide di interrompere la relazione e si rifuta di vedere ancora Corinne. Il tutto sarebbe rimasto nascosto e segreto ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi!

I cellulari sono gioie e dolori, in questo caso dolori immensi: Serena casualmente intravede un messaggio in cui Corinne scrive a Maurizio per convincerlo ad incontrarsi ancora...

Potete immaginare il pandemonio, Serena butta fuori di casa Maurizio che va in albergo, non solo, lei racconta a tutti ciò che ha fatto il suo fidanzato che l'ha tradita, ad un passo dal matrimonio per giunta.

Intervento dei rispettivi genitori, parole grosse e dramma per le due mamme che sembrano le più colpite dal tradimento, più ancora di Serena. Saltano le nozze, parentado che si schiera contro Maurizio che l'ha fatta davvero grossa!

Maurizio mi contatta tramite un conoscente, è distrutto e non sa che fare. Lo incontro un po' di volte e mi faccio l'idea che sia caduto come "una pera cotta" nelle braccia di Corinne. Mi convinco che sia stata solo una storia di sesso, Maurizio tiene molto a Serena ma non ha saputo fermarsi per tempo, ed ha rovinato tutto.

Quando la mamma di Serena viene a sapere che incontro Maurizio anch'ella mi vuole incontrare. Così pure la mamma di Maurizio ed un po' alla volta ricevo quasi tutti gli interessati alla triste vicenda. Di fatto vengo "utilizzato" dai membri delle due famiglie come un punto di contatto, li ricevo singolarmente e, credetemi, non è facile per me restare "equidistante".

Sono tutti sinceramente devastati dalla vicenda, attoniti e delusi per quanto fatto da Maurizio che, dal canto suo, si considera proprio una schifezza!

La vicenda prende una svolta quando la mamma di Serena vuole vedere Maurizio al mio studio, incrociare il suo sguardo e dirgli... non so cosa! Organizzo l'incontro a tre (con l'assenso di Maurizio) ed onestamente mi sarei aspettato parole di fuoco della mamma rivolte a Maurizio con l'incontro burrascoso al limite del dramma. Non va come mi sarei aspettato: con gli occhi pieni di lacrime la mamma di Serena abbraccia Maurizio e restano così a lungo senza parlare.

D'improvviso si apre uno spiraglio nel dramma: la mamma di Serena propone un incontro "diretto" dei due ragazzi in mia presenza.

Acconsento, non senza preoccupazione, all'incontro di Serena e Maurizio. Serena è incazzata nera (giustamente), ma vorrebbe salvare quanto di buono c'era stato nella loro lunga storia. Maurizio manca poco che collassi da tanto è angosciato e addolorato e viene tempestato dai rimbrotti di Serena che sembra un fiume in piena. Mi trovo a fare l'arbitro di un incontro di boxe, per evitare che Maurizio finisca a terra quasi morto!

Ne usciamo malconci ma vivi, anzi Serena propone un secondo rdv dopo pochi giorni. Per farla breve gli incontri diretti tra Serena e Maurizio si susseguono per oltre un mese. Sinceramente sono contento della piega presa dagli eventi, sento autentico il "pentimento" di Maurizio che sarebbe disposto a camminare sui carboni ardenti per farsi perdonare...

Serena pretende da Maurizio un percoso di terapia di coppia con me, dato che ormai sono "di famiglia".

Lavoriamo assieme per quasi un anno, i due ragazzi riescono a "recuperare" parti importanti della loro storia, il sentimento che li lega è ancora forte e condiviso. Serena perdona Maurizio, l'ha visto stare così male, sinceramente colpito e pieno di vergogna per quanto ha fatto. 

Serena sente di potere nuovamente affrontare il tema delle nozze: Maurizio vuole dimostrarle quanto ci tiene e decidono una nuova data. Giusto per evitare qualche "fantasma" di troppo si sposeranno a Torino, meglio per tutti...

 

 

P.S. Lo scritto è redatto nel rispetto del Codice della Privacy, GPDP -  Regolamento UE 2016/679.

 


 

 





Lucia e Gaia.

Photo: Elena Leya da Unsplash

Avevo conosciuto Lucia tanti anni fa quando lavoravo all'ABA di Milano, l'associazione per lo studio e la cura dell'anoressia e bulimia. Era giunta da noi molto sottopeso, sfiduciata da anni di cure mediche che non avevano sortito alcun risultato, con i farmaci prendeva un po' di peso, poi nei mesi successivi tornava magrissima senza mai appetito.

Mi aveva colpito sin da subito la sua intelligenza, aveva studiato fisica laureandosi brillantemente e dopo una permanenza negli USA per un master aveva iniziato a lavorare al CERN di Ginevra.

Racconta che la sua vita era fatta di giornate pienissime in laboratorio compresi i fine settimana, giusto a casa per dormire e lavarsi, nessun contatto con esseri umani a parte i fugaci scambi con i colleghi. Non aveva bisogno di mangiare, qualche yogurt, lattughe e barrette energetiche alla bisogna.

Dopo un anno così un giorno non si presenta al lavoro, i colleghi preoccupati la cercano a casa e trovano in stato confusionale, non si regge in piedi e la fanno ricoverare in ospedale. La diagnosi è severa: cachessia anoressica. I genitori vanno a prenderla a Ginevra e la portano a Milano al S. Raffaele per le cure del caso, con un ricovero di quattro mesi per cui è costretta a lasciare il lavoro.

Ovviamente riprende peso, "bombata" di farmaci e con alimentazione forzata. Ma la sua testa rimane "anoressica", non le interessa mangiare, non le serve!

Viene dimessa con la promessa (forzata) di farsi seguire da un centro specializzato, dato che ha rischiato di morire ed ovviamente non è in grado di capire quando la sua situazione fisica è al limite, con i familiari angosciati che non sanno più che fare con lei.

Ricordo ancora la sua prima seduta al mio gruppo ABA del lunedi alle 18. Entra e saluta le altre ragazze, è molto formale e cortese, si siede in modo composto ed osserva con i suoi occhioni le altre partecipanti.

Tace a lungo ed ascolta i racconti, poi mi chiede se può parlare. Ovviamente si, ed ha modo di narrare la sua storia pur a grandi linee. Mi colpisce anche la sua memoria, riesce a ripetere tutto quanto detto dalle altre ragazze e da me come se avesse registrato, è impressionante!

Non ispira simpatia, le altre ragazze sono un po' in soggezione per il suo modo di fare distaccato e che lascia cadere dall'alto le sue parole. Passano i mesi di terapia di gruppo e Lucia sembra li di passaggio, si capisce bene che ascolta (e registra) tutto ma in cuor suo pensa di trovarsi con delle poverette sempliciotte e lamentose, lo psicologo poi dice solo banalità... Anch'io provo sentimenti controversi, mi fa molta pena ma anche rabbia per il suo modo sussiegoso di porsi nelle relazioni. Una seduta ingaggia uno scontro "culturale" con me, ha letto tutto Freud (che ovviamente ricorda benissimo) e cerca di mettermi in scacco. Cado nel tranello per qualche battuta poi riesco a "riprendermi" dato che faccio il terapeuta, non sono li per operazioni di potere o scontri con le pazienti!

Mentre dice con orgoglio al gruppo che conosce Freud meglio di me, in modo del tutto inaspettato Gaia si alza dalla sedia e si mette di fronte a lei e a "muso duro" le urla di smettere di fare la stronza, ha rotto le scatole a tutto il gruppo ed al terapeuta, non la sopportiamo più...

Anch'io sono sorpreso dalla reazione di Gaia, poi cala un silenzio densissimo nel gruppo. Dopo un po' Lucia cambia faccia, inizia a tremare, mentre piange balbetta qualcosa e chiede aiuto. Alcune ragazze si alzano e la abbracciano mentre Gaia, che l'aveva affrontata con decisione, si inginocchia davanti a lei e le prende le mani.

Lucia piange calde lacrime, non la smette più, singhiozza e chiede aiuto... La terapia si conclude in anticipo sull'orario definito, Lucia viene accompagnata a casa dal suo gruppo, anch'io sono colpito e scosso da quanto accaduto.

Da quel momento Lucia "torna sulla terra" sta male, ha bisogno di aiuto, ha paura di morire e non sa che fare. Il gruppo la tratta con affetto e lei stessa si rende conto che da sola non potrà fare niente di buono per se, la sua intelligenza la porta a flirtare con la morte e il suo corpo non sente fame, sete e dolore.

Lucia per oltre un anno lavora nel gruppo mostrando che oltre alla sua testa ha anche un'anima ed un corpo, infatti prende un po' di peso e non viene più percepita come la "fredda e distaccata stronza" che aveva impersonato nei tempi passati.

Quando sta meglio decide di interrompere la terapia, nonostante la contrarietà delle compagne e mia.

La perdo di vista per anni, notizie frammentarie la danno al lavoro in Inghilterra o negli USA...

Un giorno ricevo un messaggio WhatsApp: "... Sono Lucia, si ricorda di me? Sono di passaggio a Milano e vorrei salutarla..." Ci incontriamo in studio e Lucia si presenta con un fagottino in braccio. E' Thomas il bimbo che ha avuto un anno fa con il suo compagno, anch'egli un fisico conosciuto al lavoro al Caltech di Pasadena. 

Non posso nascondere la gioia di quell'incontro, vedere Lucia con il bimbo ha del "miracoloso". Ma le sorprese non sono finite, sotto al mio studio l'aspetta Gaia, sono rimaste sempre in contatto e sono molto "vicine" emotivamente...



P.S. Lo scritto è redatto nel rispetto del Codice della Privacy, GPDP -  Regolamento UE 2016/679.