Soremax é stata invitata al Forum de l'Engagement del 29 ottobre al parc Phoenix di Nizza.
Dalle 14 alle 14.45 avremo uno spazio dedicato per presentare Soremax al pubblico.
Psicologo e Psicoterapeuta
Soremax é stata invitata al Forum de l'Engagement del 29 ottobre al parc Phoenix di Nizza.
Dalle 14 alle 14.45 avremo uno spazio dedicato per presentare Soremax al pubblico.
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Marta è una ragazza diciannovenne che vive con i genitori e la sorella minore di un anno Sonia, non lontano da Montpellier.
Fin dall’adolescenza ha mostrato una certa insicurezza e una forte sensibilità al giudizio altrui. Durante gli studi è stata oggetto di prese in giro per il suo aspetto fisico, esperienza che ha inciso profondamente sulla sua autostima. Da allora ha iniziato a usare il cibo come fonte di conforto, soprattutto nei momenti di stress o solitudine. Appena prende peso lascia il ballo che è la sua passione sin da bambina, appena torna a controllarsi ricomincia le lezioni.
La madre ha una lunga storia di diete fallite e tende a criticare spesso l’aspetto della figlia maggiore, anche se con intenzioni “educative”. Il padre, più distante emotivamente, tende a minimizzare le difficoltà psicologiche, sostenendo che “Con la forza di volontà si risolve tutto”.
In questo contesto Marta riferisce di sentirsi poco compresa e di nascondere la propria sofferenza per non deludere i genitori. Marta percepisce la famiglia come affettuosa ma poco disponibile a parlare di emozioni.
Marta e Sonia sono complici nella vita, escono spesso assieme ed hanno i loro primi flirt con comuni amici di scuola. Si confidano e spalleggiano dato che la loro mamma è ben poco interessata alle loro storielle con i ragazzi. Proprio un compagno di classe di Marta rappresenta il suo primo vero legame affettivo: Giacomo è un ragazzo dolce e premuroso con cui la ragazza sta proprio bene.
Al termine degli studi Marta cerca un semplice lavoro dato che non ha voglia di studiare mentre Giacomo si trasferisce a Montpellier per iscriversi a Scienze dell’Educazione (STAPS).
Il trasferimento di Giacomo viene vissuto molto male da Marta che si sente “abbandonata” e si ritrova ad essere molto gelosa. Non avrebbe pensato di stare così male ma teme che Giacomo incontri un’altra ragazza più carina di lei… Sonia cerca di rassicurarla, è assolutamente certa di Giacomo ma la sorella è veramente angosciata.
Marta, al momento solo un po’ sovrappeso inizia a mangiare di tutto, anche di notte, pasticcia e addirittura assume cibo già scaduto e in breve tempo prende molti chili.
Sonia è consapevole della grave sofferenza della sorella e la esorta a chiedere aiuto, oltretutto Marta ha preso tanti chili e dice di sentirsi “Bloccata nel corpo sbagliato” e di “Non avere più voglia di uscire, tanto non valgo niente, nessuno potrà mai accettarmi così.”
Marta viene in consultazione accompagnata da Sonia, che si comporta da “genitore” visto che i veri genitori hanno difficoltà a comprendere la sofferenza della ragazza.
Marta ci racconta che per la sua gelosia “patologica” Giacomo la ha chiesto una pausa, che ovviamente la ragazza vive come l’inizio della fine, cosa che non corrisponde a quanto Giacomo pensa.
Proponiamo un incontro tra Marta, Giacomo e noi, nel tentativo di ristabilire una comunicazione “sana” tra i due ragazzi.
Pur con difficoltà Marta si convince che Giacomo è preoccupato e non sa che fare dell’immotivata (dal suo punto di vista) gelosia della ragazza, e acconsente a tornare al paese per alcuni mesi, per rassicurarla e starle vicino.
Si tratta di un primo passo, ora occorre lavorare sul senso di abbandono che Marta vive appena sente di “perdere il controllo” nei confronti di Giacomo.
Il corpo di Marta sembra diventare una metafora del suo mondo interno: il peso rappresenta una difesa, un modo per contenere emozioni che non trovano parole. Il cibo è il suo linguaggio affettivo, un mezzo per colmare il vuoto emotivo e la mancanza di riconoscimento.
L’obesità non è solo un sintomo fisico, ma un modo di essere nel mondo, una protezione contro l’esposizione, il giudizio, il rifiuto e l’abbandono.
Con l’aiuto di un accompagnamento nutrizionale Marta riprende (pur con fatica) a meglio gestire il cibo, in termini di quantità e qualità, e perdere alcuni chili, non solo riprende i suoi corsi di danza e può guardarsi allo specchio senza “Vedersi grassa come una balena…” (Parole sue).
Il lavoro di consapevolezza sui genitori non sortisce grande effetto, la mamma è sempre giudicante e poco empatica mentre il babbo è convinto (in cuor suo) che il cibo, il peso ed il corpo siano solo problemi che angustiano le donne, giovani o meno !
Giacomo, davvero colpito dalla sofferenza di Marta le propone di trasferirsi a Montpellier, potranno affittare uno studio assieme e poi la ragazza si troverà un lavoretto.
Giacomo chiede a Marta di continuare le sedute, talvolta assieme o individualmente, per affrontare i “suoi fantasmi” che in situazioni di stress psicologico emergono con forza: altresì prosegue il lavoro di consapevolezza alimentare per la ragazza, con l’accompagnamento che potrà portarla a vivere il cibo come nutrimento e non scudo o trasformarsi in un modo per allontanare il dolore emotivo che non riesce ad esprimere altrimenti.
Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67
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Nel 1969 il professor Philip Zimbardo, (quello dell'esperimento precedente) docente all’università di Stanford decise di condurre un esperimento di psicologia sociale. Lo psicologo statunitense (di origini italiane) volle studiare il comportamento delle persone in una situazione creata apposta: lasciò due auto abbandonate in strada, due automobili identiche, della stessa marca, modello e colore. Una però la lasciò nel Bronx, una zona povera e conflittuale di New York, l’altra la lasciò a Palo Alto, ancora oggi una zona ordinata ricca e tranquilla della California.
Due auto uguali abbandonate, in due quartieri con popolazioni molto diverse. Con un gruppo di ricercatori nascosti a studiare il comportamento delle persone in ciascun sito.
L’esperimento fornì i primi risultati nel giro di poche ore: l’automobile abbandonata nel Bronx cominciò ad essere vandalizzata il giorno stesso. Dapprima furono rubate la radio, le ruote e gli specchietti, poi parti del motore. Ciò che poteva essere utilizzato fu rubato immediatamente, il resto dell'auto distrutta. Dall’altra parte del Paese invece, l’automobile abbandonata a Palo Alto, dopo una settimana risultava ancora intatta.
I ricercatori a questo punto decisero di fare un ulteriore esperimento: provarono a rompere un vetro della vettura parcheggiata in strada a Palo Alto, nella ricca California. Il risultato fu che si innescò anche per questa auto lo stesso processo, come nel Bronx a New York. Furto e vandalismo ridussero questo veicolo rapidamente ad un rottame.
La domanda era quindi: “Perchè la semplice rottura di un vetro in una macchina abbandonata in un quartiere presumibilmente sicuro è in grado di provocarne a breve la sua distruzione?”
La scoperta: quel fatto, il processo criminale, non era stato provocato dalla povertà, ma era successo qualcosa di diverso. Che aveva a che fare con la psicologia sociale e con il comportamento umano. Da tale esperimento si comincerà a parlere della “Teoria delle finestre rotte”, molto utile per indagare i fenomeni sulla poverta ed i contesti sociali.
La teoria delle finestre rotte è una teoria criminologica sulla capacità del disordine urbano e del vandalismo di generare criminalità aggiuntiva e comportamenti anti-sociali. La teoria afferma che mantenere e controllare ambienti urbani reprimendo i piccoli reati, gli atti vandalici, la deturpazione dei luoghi, il bere in pubblico, la sosta selvaggia o l'evasione nel pagamento dei parcheggi, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi.
Ad esempio l'esistenza di una finestra rotta (da cui il nome della teoria) potrebbe generare fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere un lampione o un cassonetto, dando così inizio a una spirale di degrado urbano e sociale.
Zimbardo ci ricorda che: “La linea tra il bene e il male è permeabile. Quasi chiunque può essere indotto ad attraversarla quando viene spinto da forze situazionali (ovvero dal contesto)”
In pratica ci si domandò: che pensiero produce la visione di un vetro rotto in un’auto abbandonata? Trasmette un senso di deterioramento, di disinteresse e di non curanza. Più in generale trasmette la sensazione di “rottura” dei codici di convivenza. Come altri esperimenti successivi consentirono di rilevare: è il SEGNALE di un territorio con assenza di norme, privo di regole, dove si può fare di tutto. Ogni nuovo attacco subito dall’auto finisce poi con il ribadire e moltiplicare quell’idea. Fino all’escalation di gesti incontrollabili e violenti rivolti anche alle persone.
Chi di voi ha seguito la serie televisiva Blue Bloods con Tom Selleck, che veste i panni di Frank Reagan, capo della Polizia di New York, lo avrà sentito spesso citare la "teoria delle finestre rotte" ai suoi collaboratori, in riferimento ad alcune zone difficili della grande mela.
Negli anni ottanta una prima applicazione di tale teoria ha visto coinvolta la Metropolitana di New York. La Subway, come in gergo viene chiamata ancor oggi, era il luogo più pericoloso della città. Si cominciò combattendo le piccole trasgressioni: graffiti che deterioravano il posto, lo sporco dalle stazioni, ubriachezza tra il pubblico, evasione del pagamento del biglietto, piccoli furti e disturbi. I risultati furono evidenti: non trascurando le piccole trasgressioni si è riusciti a fare della Metro un luogo sicuro.
Successivamente, nel 1994, Rudolph Giuliani (anch'egli figlio di immigrati italiani) quando divenne sindaco di New York, basandosi sulla "teoria delle finestre rotte" e sull’esperienza della metropolitana promosse quella come regola della sua amministrazione: “la politica della tolleranza zero”. Che non aveva niente di rigido, nel senso normalmente inteso, bensì la formula di una strategia: quella di creare comunità pulite ed ordinate, non permettendo violazioni alle leggi e agli standard della convivenza sociale e civile. Il risultato pratico è stato un enorme abbattimento dei tassi di criminalità in tutta la città di New York.
In sostanza: la criminalità è più alta nelle aree dove l’incuria, la sporcizia, il disordine e l’abuso sono più alti. Se si rompe il vetro di una finestra di un edificio e non viene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare a nessuno? Allora lì si genererà la criminalità.
Se sono tollerati piccoli reati come il parcheggio in luogo vietato o il superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti? Si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi.
La Teoria delle Finestre Rotte afferma invece – ed è qui la novità, come si è detto – che la criminalità è invece un fenomeno sociale: fenomeno che non parte da un particolare tipo di persona ma da una “caratteristica”, da una infrazione alla regola. Appunto il vetro rotto “nell’ambiente circostante” che, se non riparato per tempo, comporterà fenomeni di emulazione anche violenta sulle cose e sulle persone.
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| © Copertina libro Raffaello Cortina Editore |
Il male è l’esercizio del potere di nuocere intenzionalmente (psicologicamente), di procurare dolore (fisicamente), o distruggere (mortalmente o spiritualmente) altri. Solo poche persone sono in grado di resistere alla tentazione di cedere al potere e al dominio"
Philip G. Zimbardo, L'effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008
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Michele non dimenticherà mai il giorno in cui mise piede a Parigi. L’aeroporto Charles de Gaulle lo accolse con il suo caos, annunci in francese che scorrevano veloci e il brusio di una città che non dorme mai. Aveva 25 anni, un buon lavoro e un biglietto di sola andata verso un futuro che, almeno nella sua mente, sembrava perfetto.
Le prime settimane furono un turbinio di emozioni. Camminava lungo le rive della Senna come se stesse vivendo in una cartolina, assaporando ogni dettaglio: il profumo del pane appena sfornato, il vociare dei caffè, le note di un violino sul Pont Neuf. Al lavoro, i colleghi erano cordiali, la lingua di lavoro era l’inglese, che Michele parlava molto bene e si sentiva vivo, capace, pronto a conquistare la città dei sogni.
Ma, col passare dei mesi, la magia cominciò a dissolversi. Sempre più spesso doveva confrontarsi con testi, telefonate e riunioni in francese. Michele aveva studiato il francese ma gli sfuggivano le sfumature e molte battute dei colleghi in riunione lo facevano sentire fuori posto. Le mail e le riunioni, un tempo in inglese, divennero fonte di ansia: interpretazioni possibili, sfumature culturali, toni da decifrare. Michele cominciò a controllare decine di volte ogni messaggio prima di inviarlo, con il cuore che batteva forte e le mani che tremavano leggermente.
Il lavoro, da stimolante, diventò opprimente. Le responsabilità crescevano e ogni decisione pesava come un macigno. La sera, nel piccolo monolocale in affitto, il silenzio era il suo peggior nemico. Michele non dormiva più di quattro-cinque ore per notte. Ogni rumore – un clacson, il passo di un vicino, il ticchettio dell’orologio – lo faceva sobbalzare. I pensieri correvano incessanti: “Non sto facendo abbastanza… Non mi adatterò mai… Forse ho sbagliato tutto.”
L’insonnia portò con sé altri sintomi: perdita di appetito, difficoltà a concentrarsi, irritabilità. Le passeggiate nei parchi e le visite ai musei, un tempo fonte di gioia, ora sembravano compiti pesanti. Michele sentiva un senso di colpa verso se stesso: aveva lasciato Catania per un sogno, e invece si sentiva intrappolato in una città che amava ma che allo stesso tempo lo intimidiva.
Fu allora che decise di chiedere aiuto. Iniziò a frequentare una terapeuta italiana che gli propose un percorso di psicoterapia. Michele imparò a osservare i propri pensieri senza esserne travolto. Scoprì che l’ansia poteva essere gestita, che il sonno poteva essere protetto con piccole routine: ridurre la caffeina, respirazioni profonde e meditazione serale.
La terapeuta lo incoraggiò anche a costruire una rete sociale: partecipare a gruppi di expat, corsi di lingua ed eventi culturali. Michele iniziò lentamente a incontrare persone con esperienze simili. Raccontare le proprie difficoltà e ascoltare quelle altrui lo fece sentire meno solo.
Con il tempo, le notti cominciarono a diventare più tranquille. Le giornate di lavoro, pur impegnative, non lo angosciavano più. Imparò a celebrare i piccoli successi: una presentazione in francese senza ansia, un pranzo con un collega, un pomeriggio ad un museo senza sentirsi sopraffatto. La città ora lo spaventava di meno, come un enorme puzzle in cui stava lentamente trovando il suo posto.
Michele poi si rese conto di un aspetto da lui poco considerato, che ora gli pesava sempre più. Il clima di Parigi. I suoi colleghi di lavoro ne erano entusiasti ma lui, catanese di origine, non riusciva proprio ad adattarsi. Gli mancava il sole ed il mare della sua bella terra. Senza pensarci troppo decise di trasferirsi appena un posto di lavoro della sua azienda si liberò nella filiale di Nizza.
Ne parlò con la terapeuta che sostenne la sua decisione ed in poche settimane Michele scese al “sud”. Consapevole dell’importanza del percorso psicologico intrapreso a Parigi cercò anche a Nizza un terapeuta italiano per proseguire il lavoro di introspezione già ben avviato.
Michele aveva vissuto il trasferimento a Nizza come: “Il secondo tempo di un film, in cui la trama si amplia e si comprende meglio la narrazione (parole sue)”.
L’impatto con Nizza era stato molto positivo, anche per il gran numero di italiani trasferiti o residenti nella città. Consapevole dell’importanza di una buona conoscenza del francese si era subito iscritto ad un’associazione culturale per seguire lezioni ed uscite culturali, rigorosamente in francese. Il lavoro di psicoterapia ora poteva mettere a fuoco il suo desiderio di avere una compagna. In seduta aveva ammesso che gran parte del suo volere lasciare Catania era legato ad una delusione amorosa di una sua ex compagna di scuola con cui era stato per molti anni. Lei lo aveva lasciato di colpo per un altro e Michele aveva vissuto delle crisi di angoscia a seguito di ciò.
Nizza invogliava Michele a “socializzare” molto di più. Già nel suo ufficio aveva conosciuto una collega ed un venditore italiani, con cui spesso usciva alla sera per un bicchiere in compagnia.
Anzi meglio, la collega napoletana, che aveva preso in simpatia Michele gli aveva presentato di li a poco una concittadina “single”. Michele e Giovanna hanno così cominciato a frequentarsi e quasi senza accorgersene si sono “messi assieme”.
Michele ora utilizza le sedute per analizzare i suoi sentimenti verso Giovanna che lo attrae molto e che considera una persona di valore. Giovanna dal canto suo è consapevole e desiderosa di avere una relazione appagante con un ragazzo maturo quale è Michele.
Nessuno può sapere cosa riserverà il futuro a Giovanna e Michele. Ora i due ragazzi sono consapevoli e desiderosi di conoscersi e giocare al meglio le carte che il destino ha loro consegnato…
Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67
L'Associazione SOREMAX (loi 1901) di cui sono co-fondatore sarà presente al jardin de la Place Wilson sabato 13 settembre assieme a tante altre Associazioni.
La Mairie de Nice tramite la sua Maison des Associations intende fare conoscere la moltitudine di Associazioni che, soprattutto tramite volontari, si occupano di promozione del benessere, della salute, della consapevolezza civile e solidarietà nella città di Nizza.
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Martina ha 25 anni, é una ragazza dinamica, piena di amici e corteggiata dai ragazzi. Lavora in uno studio di consulenza ed il profilo LinkedIn descrive una giovane donna in carriera. Ma dietro quel curriculum si nasconde una lunga storia di dolore invisibile. Una storia cominciata molti anni addietro, quando ha tentato la sua prima dieta.
Il disturbo alimentare di Martina non è nato all’improvviso. Come spesso accade si è insinuato lentamente, prendendo forma nel tempo. Le prime abbuffate sono arrivate durante l’ultimo anno delle superiori, in un momento di forte stress emotivo. Aveva appena vissuto una delusione affettiva, si sentiva sotto pressione per la maturità e avvertiva su di sé il peso delle aspettative familiari.
In quel periodo Martina ha cominciato a controllare rigidamente l’alimentazione. Saltava i pasti, si pesava più volte al giorno e contava le calorie con precisione maniacale. Ma il corpo non era l’unico bersaglio: il cibo diventava, sempre più, un modo per sedare il dolore, una valvola di sfogo per emozioni che non sapeva nominare.
“Mi sembrava di poter controllare almeno quello, il cibo. Era l’unica cosa che dipendeva da me. Ma presto mi è scappato tutto di mano.”
Martina soffre di bulimia nervosa, un disturbo ancora troppo poco compreso e spesso sottovalutato. A differenza dell’anoressia, che spesso viene notata per la perdita drastica di peso, la bulimia può restare nascosta per anni. Chi ne soffre, infatti, tende ad avere un peso normale o leggermente fluttuante. Ma dentro, la sofferenza è intensa.
Il ciclo è sempre lo stesso: restrizione → abbuffata → senso di colpa → compensazione. Una gabbia mentale che diventa via via più stretta. Il senso di vergogna è talmente profondo da impedire, a lungo, la richiesta d’aiuto.
Gaia, una cara amica di Martina, ha tentato spesso di aiutarla con indirizzi di psicologi nella speranza che la ragazza si decida a chiedere, finalmente, aiuto.
Dopo una crisi di bulimia, particolarmente violenta, Gaia l’affronta e “costringe” a prendere appuntamento con uno psicoterapeuta.
Martina inizia una psicoterapia, ma con grande esitazione, teme di “non essere abbastanza malata” o di non meritare attenzione. Ma fin dalle prime sedute ha compreso che il disturbo non era solo nel cibo. Il sintomo alimentare era la punta di un dolore più profondo: il bisogno di controllo, la fatica di gestire le emozioni, il terrore del rifiuto, il senso di inadeguatezza che da anni le faceva compagnia.
I colloqui di Martina affrontano vari aspetti della vita della ragazza: iniziamo dal tentativo di regolarizzare l’assunzione del cibo, per interrompere il ciclo restrizione-abbuffata. In parallelo occorre aumentare la consapevolezza emotiva per riconoscere rabbia, tristezza e frustrazione.
Parte assai importante è ridefinire l’autostima, troppo legata al peso, al corpo ed alla performance, in un’immagine idealizzata di Martina impossibile da “tenere a lungo”.
Anche la costruzione di strategie alternative per affrontare il disagio è assai utile: scrittura, meditazione, sport e relazioni più autentiche. Per Martina non sono mancati momenti di crisi. Ci sono stati giorni in cui le abbuffate sono tornate, ma con meno violenza. Giorni in cui ha imparato a non punirsi, ma a chiedersi: “Cosa mi sta dicendo questa fame?”. Domande nuove, per rompere vecchi automatismi.
Il medico di base voleva prescrivere degli ansiolitici per affrontare l’ansia e i pensieri ossessivi ma Martina non ha voluto assumerli, ci dice: “…Il cuore del cambiamento è relazionale: costruire fiducia e sperimentare nuovi modi di stare al mondo.”
La storia di Martina non è un’eccezione. I disturbi alimentari – bulimia, anoressia, binge eating – colpiscono milioni di persone nel mondo. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 3-4% delle donne giovani soffre di bulimia nervosa, ma i numeri sono probabilmente sottostimati a causa della vergogna e del silenzio.
Viviamo in una società in cui l’immagine del corpo è costantemente sotto osservazione, in cui si insegna a sorridere, a performare, a "funzionare", ma raramente a sentirsi. Dove il disagio prende forme silenziose e accettate, come la fame che si nasconde nei cibi ingeriti in fretta, nelle corse in bagno per vomitare, nei lunghi sensi di colpa.
Oggi, Martina non dice di essere guarita. Dice piuttosto di essere “In cammino”. Ha imparato a distinguere la voce del disturbo da quella della propria verità. Sa che ci saranno giorni buoni e giorni difficili, ma non è più sola. Ha trovato uno spazio dove essere vista, senza giudizio. E, soprattutto, ha scoperto che non deve essere perfetta per essere amata.
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Veronica proviene da un paesino del sud Italia, luogo tranquillo in cui il tempo scorre lentamente.
La famiglia è semplice, il padre lavora in Comune e la mamma accudisce la casa e le tre figliole. Veronica è la più grande ed è la sola che manifesti il desiderio di studiare dopo le scuole superiori, che frequenta con ottimi risultati. Il papà spera che Veronica passi il concorso per entrare in Comune ma la ragazza è desiderosa di proseguire a studiare informatica.
Decide di iscriversi all’Università nella città capoluogo della sua Regione e va a convivere con due ragazze del suo stesso paesino, condivideranno le spese e quello che, per tutte e tre, rappresenta un grande passo rispetto alla tranquillità familiare.
All’Università ha i suoi primi flirt, piace molto ai ragazzi per la sua dolcezza ed innata simpatia ed è ben consapevole che troverà il “ragazzo giusto” solo più avanti quando si sarà stabilizzata per il lavoro, certa di dovere lasciare il suo paesino per una città del nord Italia.
Al termine dell’Università ha un’offerta di lavoro interessante a Milano.
Si trasferisce con una ragazza conosciuta all’Università, che lavorerà anche lei a Milano, ed assieme iniziano a conoscere la grande città nel bene e nel male.
L’impatto con il lavoro presso una grande società informatica multinazionale è duro per Veronica: l’ambiente è asettico, i colleghi freddi e scostanti, sente anche un filo di razzismo per lei che viene dal sud. Cerca di non farsi contagiare da questa brutta impressione, si butta nel lavoro (che le piace) ed evita di andare in mensa con i colleghi per evitare battutine e stupida ironia su di lei.
Nel bar dove mangia spesso conosce Pino, un ragazzo “terrone” come lei. Hanno reciproca simpatia ed iniziano a frequentarsi anche fuori dell’orario di lavoro.
Sono consapevoli che hanno bisogno l’uno dell’altra, sono complici nell’affrontare la complessità di una città come Milano, votata al lavoro e con ritmi forsennati. In modo del tutto naturale iniziano una storia.
Dopo un anno hanno la possibilità di andare a convivere, un passo importante e positivo che rafforza il loro legame.
Veronica è sempre sotto pressione per il lavoro, non solo, le hanno dato da coordinare alcuni suoi colleghi più giovani con la promessa di una promozione.
Veronica si butta a capofitto nella nuova sfida, fa spesso tardi al lavoro per raggiungere gli obiettivi lavorativi suoi e del suo piccolo gruppo.
I risultati sono buoni, meglio di quanto previsto e quando Veronica ha il colloquio con il suo capo per definire il salto di carriera rimane molto delusa: dovrà aspettare almeno un anno perché il budget non consente la promozione sperata. Potete immaginare lo sconcerto di Veronica, non reagisce e torna a casa per chiudersi in un assoluto mutismo.
Dopo poche settimane, un sabato, Veronica è costretta ad andare in ufficio per un serio problema che mette in allarme il gruppo di informatici dell’azienda: pensavano tutti di cavarsela in poche ore ma alla sera di sabato sono ancora in ufficio ed “in alto mare”. Senza quasi accorgersene Veronica comincia ad avere difficoltà a stare in piedi, barcolla, vede male e sente un pugno allo stomaco. I colleghi la vedono bianchissima in viso e si preoccupano per lei. Un ragazzo che è anche volontario in una ambulanza di Milano la aiuta, la mette in posizione di sicurezza ed assiste.
Veronica stenta a riprendersi, é senza forze, le tremano le gambe e Pino viene a prenderla al lavoro. Le consigliano di andare al Pronto Soccorso ma Veronica si rifiuta, vuole solo tornare a casa con il suo ragazzo.
La notte é molto tormentata per Veronica, è agitatissima, in ansia, vomita, piange ed il “povero” Pino non sa che fare…
Consultano il loro medico di base che sentenzia senza esitazione: Veronica è in pieno burn-out !
La ragazza è incredula, ha sentito parlare di burn-out ma le sembra solo una scusa per lavorare di meno.
Invece il burn-out è la reazione “normale” che una persona vive nel momento in cui si è gettata a capofitto nel lavoro, si è disillusa per il mancato riconoscimento di quanto svolto, poi si sente frustrata e distaccata e lavora in modo “automatico” e per finire giunge all’esaurimento delle forze mentali che, ovviamente, impattano sul corpo con i sintomi prima descritti.
Possiamo definire il burn-out uno stress lavoro correlato, che si evidenzia con sintomi fisici che sottendono un’impasse psicologica importante della persona.
Il burn-out era stato studiato sin dagli anni settanta, inizialmente si pensava colpisse solo le persone che facevano mestieri “di aiuto agli altri”, medici, infermieri, vigili del fuoco, polizia ecc. con l’espressione: “… Chi mette troppa passione nel lavoro prima o poi “si brucia”.
Poi però ci si era resi conto che tale “reazione” valeva per ogni attività, nel momento in cui al carico di lavoro faceva seguito una disillusione, una delusione, un mancato riconoscimento del lavoro svolto o cattive relazioni tra i colleghi o addirittura un “clima” aziendale malsano.
Per Veronica non è facile accettare che si è “bruciata”, ha dato molto (troppo) in azienda ed ora è senza energie psichiche per continuare.
Il medico le scrive un mese di malattia, tanto per cominciare e, soprattutto, la convince a rivolgersi ad uno psicoterapeuta per una consultazione.
Veronica giunge al colloquio molto triste e demotivata, non si capacita che tutto il suo impegno, la serietà e la dedizione nel suo lavoro non sia stata compresa, anzi le hanno fatto delle promesse non mantenute.
Mai si sarebbe aspettata una delusione così cocente, si sente presa in giro e senza energie per continuare il lavoro. Veronica è costretta a “resettare” ciò che pensa del lavoro, un’aspetto idealizzato che mal si concilia con la realtà in cui si è trovata ad agire. Non è facile ri-posizionarsi rispetto al lavoro, ovvero togliere illusione ed idealizzazione per tornare con i piedi per terra: il lavoro è parte della vita ma non la vita stessa, chi è bravo all’Università spesso non è pronto per affrontare il mondo del lavoro che ha coordinate, valori e dinamiche molto complesse.
Veronica si prende un paio di mesi di malattia per “curare” il fisico e recuperare il sonno che aveva perduto nei momenti peggiori poi, dopo averne parlato in seduta, decide di andare dal suo capo per chiedere l’aumento di stipendio e quella promozione attesa. Al colloquio è tranquilla, non ha nulla da perdere, argomenta serenamente il tutto ed aspetta la reazione del suo capo.
Riceve le solite risposte evasive e fumose e Veronica lascia il colloquio “leggera” e decisa a lasciare l’azienda, per un’informatica è facile trovare altro e di meglio…
Veronica al termine della malattia si dimette, lascia anche Milano che le ha dato molto ma portato via forse troppo e, d’accordo con Pino, tornano nel "loro sud".
Ora i due ragazzi sono a Catania, lei lavora in un istituto di ricerca e Pino, che è ragioniere, da un commercialista. Convivono ed hanno il serio proponimento di avere un figlio…
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Emma e Manon sono madre e figlia. Anni fa il papà è mancato per un’incidente d’auto mentre rientrava da un viaggio di lavoro. Manon aveva nove anni e conserva un buon ricordo del papà, che la faceva giocare ed era molto dolce con lei. Emma aveva dovuto “riprendersi” subito dal drammatico evento per proteggere Manon e farla crescere con tutto l’affetto e l’attenzione possibile. Proprio per questo aveva deciso di lavorare part time per seguire la figliola e dedicarle del tempo nel dopo scuola. Ne consegue che le due donne sono molto legate e “complici” nella vita però la madre non aveva mai dimenticato il suo ruolo e la sua funzione educativa.
Manon ha le idee chiare, vuole studiare legge per diventare avvocato ed occuparsi soprattutto di diritto familiare, che sente più come una missione che come lavoro.
La mamma la sostiene in questa sua aspirazione, ne è anche orgogliosa, come ne sarebbe stato anche il papà.
Emma da quando è mancato il marito ha perso molto la voglia di cucinare in casa, prepara dei semplici piatti e sovente si arrangia con dei surgelati che ha in casa. Manon invece si dedica alla cucina con passione e sempre più spesso è lei che cucina per entrambe. A Manon piace cucinare piatti complessi che prepara con cura ed “offre” alla mamma per invogliarla ad assaggiare delle bontà.
Chi vede assieme le due donne rimane colpito: sembrano sorelle, molto simili di viso e corporatura, spesso poi vestite in modo simile.
Al termine della maturità Manon si iscrive a legge che frequenta con grande dedizione ed interesse e supera gli esami senza fatica. La mamma la sostiene poi a fare un anno in Erasmus all’estero, per affinare la sua formazione. La scelta va all’Università per Stranieri di Perugia in Italia, anche per motivi affettivi, dato che il nonno materno di Emma era nativo proprio di Perugia.
Manon trova una sistemazione a Perugia con altre due ragazze francesi che studiano lingue ed apprezza il buon vivere nella città che accoglie studenti di tutto il mondo.
Ha anche qualche flirt con dei ragazzi ma sono solo storielle, il suo obiettivo è chiaro, tornare a Nizza per intraprendere la carriera di avvocato come ha ben previsto.
Quando torna la prima volta a Nizza da Perugia trova la mamma triste ed “appesantita”, certo la lontananza ha i suoi effetti soprattutto su Emma. Durante le vacanze natalizie Manon si rende conto che la mamma si abbuffa di piatti salati e dolci in gran quantità. Ne parla con la mamma che minimizza e le dice che invecchiando è diventata golosa e quindi non deve preoccuparsi. Una sera dopo cena Manon scopre la mamma in bagno intenta a vomitare il copioso cibo che ha mangiato poco prima. È spaventata e preoccupata, non sa che fare ed affronta la mamma direttamente. Emma le confessa che da molto si abbuffa e poi vomita a volte alterna giorni di digiuno e poi si ricomincia. Manon vuole aiutare la mamma, comprende che sta male da tempo e che il distacco a Perugia ha accentuato la sua sofferenza che si riversa sul cibo.
Vorrebbe accompagnare la mamma dal medico per parlarne con lui ma la mamma si rifiuta perché dice di vergognarsi troppo.
Manon si sente impotente ed angosciata, sa di essere la sola che può aiutare la mamma ma non sa che fare. Ha un’idea, propone (quasi impone) alla mamma, che può fare il tele-travail, di seguirla a Perugia ed affittare un monolocale assieme per tutti i mesi restanti.
Non solo, tramite un suo professore contatta uno psicologo e convince la mamma ad andare tutte e due in seduta. Iniziano il percorso di terapia familiare che lascia emergere la mai sopita sofferenza della mamma per il grave lutto e la fatica psicologica, al limite dell’annullamento di sé, per seguire e proteggere Manon.
Ma per lavorare su tali temi occorre continuare le sedute a Nizza. Il caso vuole che il professore che ha consigliato Manon mi conosca per un seminario di formazione svolto proprio a Perugia, anni fa. Il collega mi invia le due donne, per proseguire i colloqui di coppia. Dagli incontri emerge chiaramente che Emma non si è mai concessa nulla, vive della luce riflessa e dell’orgoglio per la figlia ma ha eclissato se stessa. Questa consapevolezza si scontra con i sensi di colpa di Emma che non si “autorizza” a vivere per se stessa, come se ciò portasse via qualcosa alla figliola. Verbalizzare ciò è il passo iniziale per un processo di “differenziazione” delle due donne, che non vuole dire perdersi ma invece valorizzare le differenze.
Di comune accordo Manon “costringe” la mamma a fare la spesa e cucinare le pietanze per loro due con una dieta sana e bilanciata e mangiano assieme in un momento conviviale. Per Emma non è facile, ovviamente, anche perché si ritrova ad avere del tempo per sé che potrà occupare in qualcosa che desidera e le piace. Si iscrive ad una Associazione che aiuta i bambini a fare i compiti dopo la scuola, sfruttando le sue conoscenze di materie scientifiche. Emma un giorno in seduta verbalizza che “riempire” il suo tempo le permette di percepire molto meno il vuoto che altrimenti poteva colmare soltanto abbuffandosi per poi sentirsi in colpa per il cedimento psicologico che viveva.
Il lavoro continua…
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Adriana è una ragazza trentenne che decide di lasciare l’Italia per trasferirsi in Francia e cercare un lavoro più soddisfacente. È infermiera ed ha sempre lavorato all’Ospedale di Taranto, sua città natale, con turni massacranti e basso stipendio. Le spiace allontanarsi dalla famiglia dato che è figlia unica e lascia il fidanzato “storico” dopo dieci anni di relazione in cui lui non si è mai deciso a proporle il matrimonio e Adriana pensa sia ormai una storia troppo sfilacciata. Sente parlare di Nizza da una collega che ha già avviato la procedura per il riconoscimento del titolo di studio per lavorare come infermiera in Francia. Conosce poco Nizza, viene alcune volte come “turista” ed è piacevolmente colpita dalla città. Conosce il francese scolastico e, prima di fare il grande passo, prende lezioni private di lingua. Adriana ora è pronta a trasferirsi, inizialmente alloggia dalla collega italiana che è già inserita in Ospedale ed inizia a lavorare presso una clinica convenzionata. Gli orari sono molto più “normali”, raramente lavora nel fine settimana e lo stipendio più elevato che in Italia. È contenta della sua scelta, ha però difficoltà a legare con le colleghe del lavoro che le sembrano cortesi ma “freddine” nei rapporti interpersonali. Di fatto frequenta solo la sua collega italiana che però sta per trasferirsi a Lione a seguito di una offerta lavorativa molto interessante. I fine settimana spesso sono noiosi quindi decide di iscriversi ad un corso di yoga. Adriana è molto contenta della sua scelta, lo yoga l’aiuta a prendere coscienza di sé, concentrarsi e sente una “buona energia” nelle persone che frequentano con lei il corso. Dopo le lezioni fa spesso uno spuntino in un locale vicino e li conosce Karim, un ragazzo tunisino che non nasconde interesse per lei. Adriana non vorrebbe iniziare una storia ma si lascia convincere dalla dolcezza del ragazzo. Si frequentano per oltre un anno sino a quando, di comune accordo, decidono di andare a convivere in una casetta che affittano assieme. Stanno bene e cominciano a pensare ad avere un figlio, grande desiderio di Adriana, che sente "l’orologio biologico" correre. Un giorno Adriana dimentica il suo cellulare in clinica ed usa quello di Karim per prenotare una pizzeria per la sera stessa. Rimane sorpresa da una seria di chiamate a Karim da parte di una certa Afef. Chiede al ragazzo chi sia ma riceve delle risposte evasive. È perplessa ma non vuole essere “paranoica” e farsi strani film, però “un tarlo” continua a non darle pace… Si ricorda lo “strano” numero e il giorno successivo decide di chiamare direttamente; scopre che è un Hammam: Afef è una delle ragazze del centro, con tanto di foto sul sito e non vi è dubbio che la fanciulla non faccia solo massaggi rilassanti! Potete immaginare lo sconcerto il dolore e la rabbia di Adriana, nello scoprire cosa potesse avere fatto “il suo Karim” con quella ragazza. Lo affronta la sera stessa tra urla e pianti. Karim è costretto dall’evidenza ad ammettere che nel frequentare l’Hammam ha visto parecchie volte Afef, ma spergiura che è “solo” un fatto fisico! Adriana si sente ancor più male, è una bellissima ragazza, cento volte meglio di quella Afef che appare assai volgare, non riesce più a sopportare la situazione e costringe Karim ad uscire immediatamente di casa. I giorni successivi sono un tormento, non riesce a dormire ed ha sempre mal di stomaco, prende dei giorni di malattia e consulta una psichiatra che le prescrive dei farmaci ansiolitici ed ipnotici per dormire. I farmaci sembrano non funzionare con Adriana, anzi hanno un effetto paradossale, è ancora più irrequieta ed insonne. Dopo alcune settimane decide di interrompere le medicine e conta che il solo yoga possa darle pace e serenità. I giorni passano ma Adriana sta sempre male, oltretutto viene a sapere che Karim cerca di contattarla nonostante lei lo abbia bloccato e minacciato di chiamare la Polizia se si fosse fatto ancora vivo. L’insegnante di yoga spesso la ospita a casa sua quando capisce che Adriana è davvero angosciata e potrebbe farsi del male, non solo, la convince a prendere appuntamento con uno psicologo per iniziare un percorso psicoterapico. I colloqui sono difficili per la disperazione che Adriana vive, potete immaginare cosa possa pensare degli uomini… All’inizio delle consultazioni spesso utilizzo il test del copione per capire meglio le dinamiche familiari della persona, utili per poi fare chiarezza su eventi dolorosi attuali e sulle modalità di reazione della persona stessa. Dal test che Adriana compila emerge qualcosa di opaco in riferimento al termine del periodo adolescenziale: le domande successive non portano luce su momenti importanti della sua vita verso i vent’anni. Al colloquio successivo Adriana di colpo è colta da un feroce mal di testa, non riesce più a parlare e deve tornare a casa… La seduta che segue è importante perché Adriana molto commossa mi racconta che verso i vent’anni ha dovuto abortire da sola e di nascosto dai familiari dopo che il ragazzo con cui stava l’aveva lasciata di colpo. Un momento doloroso in cui aveva già vissuto un forte mal di stomaco, insonnia per alcuni mesi e grande male alla testa. Tali sintomi “psicosomatici” si sono ripresentati al momento della separazione da Karim, con il vissuto emozionale di una violenza fatta da un uomo nei suoi confronti allora con l’essere costretta all’aborto ora con il tradimento. Concordiamo che Adriana debba parlare di quell’evento con i genitori, è un segreto troppo pesante da tenere dentro di se, un segreto che la fa sentire troppo in colpa. Rientra in Italia e ne parla con i suoi, e… da li a pochi giorni i sintomi “psicosomatici” si riducono e spariscono. Ovviamente il lavoro psicologico continua, un pò come un lutto che va elaborato lentamente, in un processo di “riparazione” perché Adriana possa tornare a “fidarsi” di un uomo.
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Isabelle ricorda che sin da ragazzina è stata “in carne”, terribile espressione per dire grassa.
Siccome era simpatica e generosa i compagni di classe la coinvolgevano sempre nei loro giochi ma nell’attività fisica era in grande imbarazzo. Impacciata e goffa, si era fatta fare dal medico un certificato per non svolgere ginnastica a scuola come le altre ragazze.
In adolescenza per qualche anno aveva perso peso ed era proprio contenta, aveva avuto per due anni un flirt con un ragazzo, poi di colpo lui era sparito. Non solo, il ragazzo si era messo con una sua amica. Risultato: aveva perso amica e ragazzo. Da allora si era rifugiata nel cibo, aveva sempre voglia di sgranocchiare qualcosa, soprattutto dolci, pur sapendo che le facevano male.
I genitori le avevano tentate tutte, con le buone e con le cattive: diete, controlli medici e ginnastica, invano. Una serie di colloqui con uno psicologo avevano attenuato la “fame” di Isabelle, ma lei aveva deciso di interrompere le sedute.
Ora Isabelle è una giovane donna di 26 anni, ha studiato informatica, sua passione, e lavora in una grande azienda. Ha praticamente provato tutte le diete possibili, all’inizio riesce a perdere peso ma nel giro di uno-due mesi perde il controllo e riprende il peso con in più delusione e rabbia per lo scacco subito.
É stata anche ricoverata presso un centro specializzato ma ha interrotto il programma di cura dopo tre settimane perché si sentiva “in prigione”.
Vive ancora con i genitori (è figlia unica) ed i rapporti familiari sono buoni.
Il cruccio dei genitori è vederla da sola senza un compagno, lei che è una ragazza cosí brava e sensibile. Ha avuto una relazione con un collega di lavoro, anch’egli sovrappeso e così ci dice Isabelle: “Abbiamo lo stesso cruccio, non ci piacciamo ma stare soli è doloroso”. La storia va avanti tra alti e bassi per un paio di anni poi il ragazzo si trasferisce in una sede estera dell’azienda.
É uno choc per Isabelle, lui le assicura che anche a distanza la loro storia potrà continuare ma lei ha una bruttissima sensazione. Inizialmente riescono a vedersi almeno una volta al mese poi le cose si fanno difficili. Il ragazzo si allontana sempre più sino a quando Isabelle in un momento di rabbia decide di chiudere la storia. Lui “sparisce” e conferma ad Isabelle che la storia era finita già da tempo, purtroppo. Gli effetti di questa rottura sono molto pesanti per Isabelle: prende ancora peso, dorme male e spesso la sera beve dei superalcolici per… aiutarsi a dormire.
Le giornate di Isabelle sono tutte uguali, si alza, va al lavoro, rientra e mangia. Il sabato e la domenica guarda delle serie televisive e… mangia.
I genitori sono disperati perché Isabelle sembra essersi “lasciata andare”, non ha interesse per nulla, non vede persone e mangia, mangia… La costringono “obtorto collo” a consultare un nutrizionista (uno dei tanti) che però ha con lei un approccio diverso. Anziché parlare di diete, cibi ed abbinamenti, le propone il test PCS che noi di Soremax abbiamo preparato: una serie di venti domande volte a conoscere il rapporto tra le emozioni ed il cibo. Infatti pensiamo che se non si parte dall’intima connessione tra il mangiare e le nostre emozioni non ha senso parlare di calorie, zuccheri e nutrienti…
Il test incuriosisce un pò Isabelle, stupita che il nutrizionista non le prescriva una dieta (che lei sa bene non funzionerà). I dati del test evidenziano aspetti emozionali legati al senso di abbandono ed una profonda nostalgia. Questi elementi vanno ovviamente inseriti e compresi nella storia di Isabelle, per cui il nutrizionista le suggerisce un incontro con Soremax con la promessa che non si parlerà assolutamente di cibo e diete.
Con questa rassicurazione Isabelle ci incontra. Il colloquio è difficile, Isabelle è sfiduciata ed arrabbiata con il mondo e, soprattutto, con se stessa. Riusciamo a concordare altri appuntamenti volti a capire l’origine dei suoi sentimenti di abbandono e nostalgia. Poco alla volta emerge il profondo dolore per un trasferimento quando aveva otto anni, da un paesino tranquillo alla grande metropoli, che Isabelle ha vissuto malissimo. Non ne aveva mai parlato con suoi genitori per non preoccuparli ma si sentiva proprio perduta, senza le sue amichette di scuola. Ad un certo punto della seduta si ricorda che rubava dei soldini in casa per comperare di nascosto delle merendine che mangiava a scuola. Il cibo per lei cominciava ad essere un “ansiolitico”, le permetteva di vivere senza percepire troppo dolore. Passiamo poi al doloroso capitolo degli abbandoni dei ragazzi che ancora la fanno soffrire enormemente. Ci dice che il vuoto che percepisce può essere colmato solo con il cibo, che la riempie e stordisce al contempo.
Verbalizzare questi aspetti è l’inizio del lavoro psicologico per Isabelle, ma occorre affrontare “di petto” il totale disordine alimentare della giovane.
Isabelle ci aveva raccontato che talvolta mangiava dei cibi ancora parzialmente surgelati, tanto per riempire, non per nutrirsi!
Come Soremax utilizziamo gli aspetti sensoriali-gustativi del cibo per un approccio più sano al cibo stesso, slegati dalla conta delle calorie o da altri aspetti “tecnici” dell’approccio all’alimentazione che sappiamo essere troppo spesso fallimentari per le diete di queste persone.
Sapore, colore, piacere, gusto e umami (il quinto gusto) sono gli assi di lavoro di Soremax per approcciare il cibo come un piacere, un ritrovato desiderio di assumere ciò che ci piace e fa bene.
In parallelo alle sedute psicologiche Isabelle viene “accompagnata” a fare la spesa, conoscere i vari alimenti, abbinarli ed apprezzarne profumo e gusto (per lei totalmente estranei).
È un lavoro delicato da fare assieme a noi di Soremax, per permettere ad Isabelle di acquisire consapevolezza di sé nella riscoperta del cibo come piacere e non “nemico” o veleno.
Isabelle è poi stimolata a recuperare un minimo di vita sociale, incontrare persone e non passare i fine settimana davanti alla televisione…
Sapendo che le piacciono gli animali la convinciamo ad offrirsi come volontaria presso un’Associazione. Dapprima esita poi si convince e inizia a partecipare alle attività di raccolta fondi ed a seguire alcuni cagnolini abbandonati ed in carico all’Associazione stessa.
Non passa neanche un mese ed un bel setter (abbandonato) “la sceglie” ed Isabelle decide di portarlo a casa. I genitori sono contrari, non hanno mai avuto animali in casa e la madre ha paura dei cani! Breve battaglia casalinga ed, ovviamente, il setter ora è ben piazzato in casa ed è la gioia di tutti e tre per la sua dolcezza e giocosità.
Il lavoro continua, Isabelle è consapevole che questo è solo l’inizio di un percorso che potrà fare accompagnata da Soremax ma che esige (responsabilmente) che lei contribuisca al buon esito finale, senza sentirsi in colpa, “sbagliata” o malata…
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Celine, una ragazza diciassettenne ci consulta dato che è molto preoccupata per la sorella minore di due anni, Carla, che da alcuni mesi mangia molto poco e svogliatamente. Celine poi scopre che Carla nasconde del cibo nella stanza, cibo che poi getta via senza farsi accorgere. Le due sorelle vanno molto d’accordo e sono complici in quello che fanno. Carla chiede a Celine di non dire nulla del suo mangiare ai genitori, di mantenere il segreto.
Genitori che parlano poco con le loro figliole, sono entrambi lavoratori per non fare mancare nulla in casa, soprattutto il padre che fa degli extra lavorativi per consentire un tenore di vita più elevato a tutti loro.
Ovviamente Celine è combattuta tra il rispettare il volere della sorella e la preoccupazione per un comportamento che sa potenzialmente pericoloso.
Per molti mesi le cose vanno avanti cosí sino quando una sera Carla rientra a casa ubriaca.
I genitori non sembrano fare molto caso a Carla mentre Celine è estremamente preoccupata per la sorella e non sa bene cosa fare.
Soprattutto é stupita per il fatto che i genitori non sembrano vedere nulla, parlano poco con le ragazze e sembrano tenere solo al loro rendimento scolastico, che per la cronaca è ottimo per entrambe.
Celine chiede un colloquio all’infermiera della scuola (che entrambe le ragazze frequentano) per avere un consiglio e capire meglio come comportarsi con Carla. L’infermiera si offre di incontrare in modo riservato Carla per parlare assieme e tentare di affrontare la sua sofferenza.
Carla si rifiuta, anzi è arrabbiata con Celine che in qualche modo ha “rotto” il segreto che le aveva chiesto di mantenere.
Celine quindi si ritrova al punto di partenza, non sa che fare e Carla ora è arrabbiata con lei per avere parlato della sua sofferenza ad un “estraneo” a scuola.
Carla poi peggiora, mangia sempre meno e fa esercizi di step per bruciare calorie, nella quasi totale indifferenza dei genitori.
Celine non riesce più a fare finta di nulla, si scontra con i genitori mentre Carla è fuori casa e li accusa di essere totalmente ciechi e sordi allo stare male di Carla ed anche alla sua enorme preoccupazione dato che sembra l’unica consapevole di quanto accade in famiglia!
Su consiglio dell’infermiera della scuola Celine contatta Soremax per avere aiuto.
La incontriamo ed è veramente preoccupata (ed arrabbiata) dato che sente di essere lei “genitore” di Carla con i veri genitori che sembrano ben poco consapevoli di quanto accade in famiglia.
La situazione è complicata, Celine si ritrova in mezzo ma non si sente di voltare la testa mentre la sorella deperisce a vista d’occhio con i genitori “assenti” e irresponsabili.
Con il suo assenso le proponiamo di convocare i genitori per esprimere la preoccupazione di Celine per Carla e capire quanto siano in grado di cogliere ció che accade in famiglia, la sofferenza della figliola minore ed il rischio di una condotta anoressica per una ragazza adolescente. Il padre si rifiuta di incontrarci, solo la madre si presenta ma in modalità “molto difesa”.
Con grande attenzione e delicatezza cerchiamo di capire quanto la madre sia consapevole della sofferenza di Carla e scopriamo (!) che anche la signora era stata anoressica per un lungo periodo a cavallo tra l’adolescenza ed i primi anni del matrimonio. Erano seguite feroci litigate con il marito per via della sua anoressia con il rischio di una separazione se lei non avesse preso del peso e regolarizzato le mestruazioni per restare incinta. In questo modo “forzato” la madre aveva preso peso ed era nata Celine e dopo due anni Carla. Il marito con il suo modo semplice e razionale aveva sempre pensato che non mangiare era una mania delle donne per restare magre, in linea.
I colloqui successivi sono molto più “autentici”, la signora mostra di comprendere bene Carla e la sua sofferenza che ha conosciuto bene ed in prima persona tanti anni prima. Ci dice anche che spesso ha tentato con il marito di parlarne ma lui non vuole sentire nulla dato che basta volere e si mangia, si prende peso senza creare caos in famiglia.
Anzi il marito accusa la moglie di avere “contagiato” la figliola con questa storia dell’anoressia.
Il quadro familiare é molto complesso e difficile da affrontare, tenuto conto che Carla ora capisce che tutti sono al corrente del suo non mangiare ed è parecchio angosciata ed arrabbiata.
Per potere continuare il nostro lavoro dobbiamo contare sul minimo di “alleanza terapeutica” che possiamo instaurare con la mamma, che conosce bene la sofferenza anoressica e in qualche modo ha già cercato di proteggere la figlia pur in modo ambivalente.
Dobbiamo incontrare la signora molte volte per rassicurarla che nessuno ha intenzione di colpevolizzarla per quanto avviene in casa, anzi lei al momento è l’unica persona in grado davvero di aiutare Carla dal suo ruolo di genitore. Va da se che la signora deve affrontare il marito e “costringerlo” almeno ad un incontro con Soremax.
Pur con fatica l’appuntamento si concretizza e, inaspettatamente, Carla vuole essere presente, per “…Dire la sua in prima persona”.
Incontro molto teso come è possibile immaginare, Carla esplode più volte ed attacca il padre e già che c’è anche la madre… La madre poi si decide a parlare alle figliole della sua anoressia prima della loro nascita, nella sorpresa soprattutto di Carla.
Ci tocca fare da “arbitri” del match nella speranza di potere ottenere un minimo di consapevolezza da parte di tutti, passata l’arrabbiatura dei membri della famiglia. Siamo indecisi se proporre altri incontri “tutti assieme” o separati. Decidiamo di giocare il tutto per tutto e vedere la famiglia al completo, genitori e figlie. Il padre si sente “attaccato” dalle sue tre donne e reagisce dicendo che se ne sarebbe andato via di casa.
In effetti va dal fratello per qualche giorno ma non riesce a stare lontano dalla moglie e dalle figliole perché si sente perduto, solo e mutilato!
L’angoscia che prova nello stare lontano dalle “sue donne” lo costringe a tornare ai colloqui familiari ben più disposto ad ascoltare. Soprattutto capire che non mangiare non è per “tenere la linea” ma nasconde emozioni e dolore per chi ne soffre. É un punto di partenza per il padre che rientra a casa accolto con tenerezza dalle “sue donne” che vogliono capisca quanto lui è importante per tutta la famiglia ma ugualmente “deve” ascoltare e parlare con loro di emozioni, desideri e difficoltà senza chiudersi a riccio.
Il lavoro di consapevolezza è in corso, la madre ora può essere molto più vicina a Carla, Celine torna a fare la figlia ed il padre sa quanto è “importante” nella sua famiglia.
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