La relazione tossica di Costanza


© Pexels

Costanza è una ragazza ventisettenne nativa di Bari che si é trasferita a Londra per lavorare in una società informatica. 
È laureata in fisica ma é attratta dall’informatica ed ha messo in conto di avere un’esperienza all’estero di alcuni anni, poi chissà…
La mamma di Costanza è mancata tanti anni fa e la famiglia (di umili origini) é composta dal padre e da due fratelli più grandi di lei che raramente hanno sostenuto il desiderio di Costanza di studiare. Le fa onore avere seguito i corsi universitari mentre lavorava come cameriera per sostenere le spese universitarie.
Il padre ed i due fratelli hanno una piccola officina di riparazioni auto e Costanza ha ben chiaro che deve allontanarsi da Bari per fare la sua vita.
Appena concluso gli studi, con tre anni di ritardo, motivati dal connubio studio-lavoro, cerca lavoro all’estero: è attratta dall’Inghilterra e dato che se la cava bene con l’inglese, appreso da sola, inizia ad inviare un gran numero di curriculum.
Immaginate quindi la sua gioia quando é contattata da un’azienda informatica con sede a Londra, che dopo il classico iter di colloqui la assume a tempo indeterminato.
In men che non si dica si trasferisce a Londra e trova sistemazione presso un’Associazione che fornisce appoggio a stranieri con un contratto lavorativo stabile. La modesta cifra richiesta per l’alloggio, peraltro in una zona centrale di Londra e non lontano dall’ufficio, le permette una buona qualità di vita.
I primi mesi sono “fantastici” per lei, visita tutta la città ed i suoi musei, ed ora mette in conto nei fine settimana di visitare i dintorni di Londra.
Tramite Facebook entra in contatto con altri italiani della capitale ed inizia ad uscire alla sera per bere qualcosa e partecipare alle sue prime feste, che la galvanizzano.
Conosce alcuni ragazzi che le piacciono ma niente di troppo serio, é una bella ragazza e non ha certo difficoltà a “farsi notare”.
Ha piccoli flirt siano a quando conosce Mattia, ragazzo italiano che si è appena trasferito a Londra dopo avere abbandonato gli studi in Italia. Mattia é un bellissimo ragazzo, con velleità di fare il modello, nel frattempo lavora come cameriere in un ristorante di Londra.
Si incontrano con altri italiani del gruppo FB e Costanza è subito attratta dalla simpatia e bellezza di Mattia che però ha una storia in essere con Giulia. Dopo alcuni mesi accade qualcosa che stravolge la vita di Costanza (parole sue): una notte Mattia citofona a Costanza angosciato e chiede di salire da lei, ha appena litigato furiosamente con Giulia, che gli ha ingiunto di uscire di casa immediatamente.
Costanza lo fa restare a casa da lei e lo conforta. Il giorno dopo Costanza si mette in contatto con Giulia che le dice chiaramente che è tutto finito tra loro, Mattia è totalmente irresponsabile e si comporta sempre da ragazzino nell’incapacità di avere una relazione seria.
Costanza è scossa dal sentire quelle parole ma é anche consapevole che Giulia non ha mai veramente mostrato attaccamento al “povero” Mattia. 
Il ragazzo trova un alloggio e per qualche tempo Costanza e Mattia si incontrano in modo “amichevole” sino a quando ad una festa, complice qualche bicchiere di troppo, si baciano.
Ha inizio una storia molto coinvolgente per i due ragazzi tanto che cercano subito un alloggio e vanno a convivere.
Per oltre un anno tutto procede per il meglio, Costanza è molto contenta di Mattia, che reputa un ragazzo assennato e serio, che purtroppo è costretto a fare il cameriere in attesa di trovare lavoro come modello.
Mattia viene a sapere che un corso tenuto da una società di pubbliche relazioni potrebbe aiutarlo a trovare buoni contatti per entrare nel mondo della moda. Il corso è molto costoso e richiede un impegno incompatibile con il lavorare al ristorante e Costanza viene in aiuto di Mattia, pagherà l’iscrizione e lo manterrà durante le lezioni per l’anno di corso. 
Al termine del corso Mattia è deluso, tante promesse ma nessun contatto davvero utile. Costanza gli chiede di riprendere a lavorare dato che da sola ha difficoltà a pagare affitto e spese varie per loro due. Mattia tergiversa, anzi è convinto di dovere insistere con il suo desiderio di fare il modello quindi farà tutti i casting possibili a Londra. Il clima comincia ad essere teso, Costanza incalza Mattia che insiste assolutamente con il suo desiderio di “sfondare” nella moda e certo non può perdere occasioni andando a lavorare in un ristorante.
Spesso Mattia torna a casa piuttosto bevuto ed i litigi con Costanza diventano la norma. Al momento solo scontri a parole ma Costanza “sente” che la rabbia di Mattia potrà prima o poi sfociare in qualcosa di fisico. 
Infatti un giorno, nel mentre di una litigata, Mattia scaglia il cellulare di Costanza contro il muro.
La ragazza è molto spaventata e Mattia con l’abilità di un attore hollywoodiano si scusa, implora di perdonarlo e giura di cercare lavoro al più presto.
Mattia riprende a lavorare al ristorante e sembra che il clima tra i due ragazzi migliori sino a quando… Costanza scopre che al ristorante non l’hanno mai visto e Mattia ha contratto dei debiti con la firma, ovviamente falsa, della ragazza.
Litigata furiosa tra i due e Costanza cade spinta dal ragazzo. Di colpo Mattia si trasforma, la soccorre, piange ed implora perdono per quanto ha fatto. Ancora una volta Costanza lo perdona, forse per paura di reazioni ancora più estreme di Mattia. Costanza ora è molto spaventata, comincia a pensare a come "fuggire" da Mattia e decide di telefonare a Giulia, che nel frattempo si è trasferita a Nizza per lavoro e che l’aveva ben avvisata della vera natura di Mattia. Sostenuta anche dalle parole di Giulia e con la scusa delle ferie Costanza si allontana da Mattia e torna a Bari, aggiorna a grandi linee i familiari e stavolta ha il pieno appoggio del padre e dei fratelli che non vedono l’ora di incontrare faccia a faccia Mattia. Costanza capisce bene che non è il caso (!) per il bene di tutti ma ora DEVE affrontare il suo di bene e fare scelte coraggiose.
In men che non si dica, su suggerimento di Giulia, trova lavoro a Sophia Antipolis, e blocca Mattia in tutti i modi per non sentirlo più. 
Giulia si comporta da “sorella maggiore” per Costanza, purtroppo condividono entrambe l’essere state “vittime” di Mattia. Giulia ascolta, supporta ed assiste Costanza con due imperativi categorici: non sentire più Mattia e intraprendere un percorso di psicoterapia come già sta facendo lei. È molto doloroso per Costanza “mettere mano” alla sua attitudine (malata) ad essere crocerossina per un ragazzo in una relazione che si è rivelata tossica. Da qui occorre partire nel percorso delle sedute, analizzare gli aspetti di sacrificio e martirio che Costanza considera insiti in una relazione amorosa. Alcuni sogni di Costanza ci aiutano a capire il vissuto profondo della ragazza: in un ricordo delle prime sedute ci racconta che ha sognato lei che cercava disperatamente di piacere al padre, affaccendato ed intento a parlare con i suoi figli (maschi).
In un successivo sogno ricorda che seguiva un corso di meccanica on-line per poi mostrare al padre il diploma e andare a lavorare con lui in un’officina senza i suoi due fratelli!
Sogni sin troppo “trasparenti” ed evocativi di una sofferta richiesta di essere vista ed apprezzata, ma che si concludono con un rifiuto.
Costanza capisce anche che in qualche modo ha bisogno (ed anche desidera un pò) riprendere i contatti con i suoi familiari, trovare un modo nuovo di relazionarsi a loro, dare una chance al padre ed ai fratelli non solo nel momento del bisogno (vedi Mattia) ma anche in momenti più “familiari”.
Decide di prenotare a Nizza un soggiorno per tutti, vuole provare ad averli vicino tenuto conto che a Londra non ha mai voluto che venissero a trovarla.
Detto fatto, organizza un breve soggiorno che permette a tutti di avere momenti sereni, del resto hanno tanto da raccontarsi visto che si conoscono molto poco in riferimento alle emozioni profonde ed alle loro dinamiche familiari. Il racconto della dolorosa storia di Mattia consente loro di “avvicinarsi” molto di più ed affrontare le difficoltà di relazione che troppo spesso hanno caratterizzato i loro scambi familiari. Le giornate assieme si concludono con una cena in un bel ristorante di Nizza ove sono presenti tutti, Giulia compresa che di fatto ora é parte della famiglia… 


Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 




















Chiara e Luca

                                                                        © Pexels

Chiara ha 28 anni e Luca 30. Si sono conosciuti a Milano ove si erano trasferiti dal sud Italia per gli studi. Descrivono il loro incontro “magico” e fonte di grande serenità e gioia. Stanno assieme da cinque anni e convivono da tre, Chiara è grafica freelance e Luca fisioterapista. Un amico di Luca lo convince a trasferirsi a Nizza ove avrà sicuramente ottime prospettive di lavoro, mentre Chiara che lavora on-line potrà continuare senza problema anche a distanza.
Il primo anno a Nizza li vede soddisfatti della scelta, cominciano a conoscere tanti altri italiani, come loro trasferitisi alla ricerca di un lavoro più gratificante.
Poi qualcosa si “rompe” tra di loro. La coppia si presenta in consultazione su iniziativa di Chiara, che riferisce un progressivo allontanamento affettivo e una sensazione di vuoto nella relazione. Luca accetta di partecipare, pur manifestando scetticismo e una certa difficoltà a riconoscere la dimensione emotiva del disagio.
Entrambi riportano un momento “pesante” caratterizzata da difficoltà comunicative, calo del desiderio e sentimenti di incomprensione reciproca.
Chiara riferisce di “Non sentirsi più vista né desiderata”, mentre Luca lamenta “Continue richieste e tensioni” che lo portano a ritirarsi. La (dolorosa) domanda esplicita della coppia è comprendere se “Ha ancora senso restare insieme”, ma sul piano implicito emerge un bisogno di riconoscimento e validazione reciproca, spesso agito attraverso modalità difensive.
Durante le prime sedute si evidenzia una dinamica interattiva complementare: Chiara tende a occupare la posizione di chi ricerca contatto e conferme affettive, mentre Luca assume un atteggiamento di distacco e razionalizzazione.
Anche il linguaggio corporeo della coppia rifletta tali polarità: Chiara è protesa in avanti, con tono di voce carico di urgenza emotiva; Luca è più composto, spesso distoglie lo sguardo, e parla in modo contenuto, talvolta difensivo.
Il dialogo è frequentemente interrotto da incomprensioni che riattivano nel campo relazionale un clima di frustrazione. Si percepisce nella stanza una tensione oscillante tra desiderio di fusione e timore di invasione, che viene letta come espressione di un conflitto di fondo relativo ai bisogni di attaccamento e autonomia.
Appare chiaro che i due giovani si “lanciano addosso” difficoltà legate alle rispettive vicende familiari senza averne chiara comprensione. Entrambi sentono di avere ragione ed il tutto non fa che allontanarli pur con tutta la sofferenza che comporta il solo pensiero di lasciarsi…
Lavoriamo con Chiara sul proprio bisogno di contenimento e sicurezza, che esprime in forma di rimprovero o richiesta controllante nei confronti di Luca, che si sente “attaccato” e non percepisce la sofferenza di Chiara all’origine di tale comportamento.
Chiara ci racconta la sua esperienza infantile di avere avuto a che fare con una madre emotivamente imprevedibile, in cui la ricerca di vicinanza veniva vissuta con ambivalenza, paura e delusione. Da qui il suo profondo timore di “perdere” Luca che la porta ad agire aggressivamente nei suoi confronti, anziché esprimere il proprio bisogno di rassicurazione e la sua paura.
Luca, dal canto suo, esprime un modello relazionale di ritiro difensivo, legato ad una madre vissuta come intrusiva e ad un padre poco presente, che lo hanno portato a costruire un Sé autonomo a costo di un forte controllo affettivo ed emotivo.
Portare a livello consapevole le due dinamiche psicologiche che Chiara e Luca che si proiettano l’uno verso l’altra permette di cogliere la sofferenza di entrambi piuttosto che la sola parte aggressiva, richiedente, esigente o sfuggente.
Il conflitto inconscio della coppia può essere descritto come lo scontro tra due fantasmi relazionali: quello di Chiara, che teme l’abbandono, e quello di Luca, che teme l’invasione. Le rispettive difese — l’agito relazionale di tipo fusionale di Chiara e il ritiro evitante di Luca — mantengono il legame, ma ne impediscono la crescita.
Ma Chiara e Luca come sappiamo in cuor loro desiderano salvare la coppia. É che non sanno come fare dato che non riescono ancora a riconoscere ciò che li lega veramente e ciò che li allontana.
Ovviamente non é facile per i due giovani comprendere appieno queste dinamiche, capire che ognuno di loro ha bisogni, paure e desideri da esprimere e non vale il discorso del “Chi ha più ragione”…
Il lavoro terapeutico continua e le sedute successive sono all’insegna di una maggiore consapevolezza per entrambi, riconoscimento dei bisogni e desideri reciproci ed “abbassamento” delle difese e dei momenti di tensione dovuti ai “fraintendimenti”.

Chiara riesce a riconoscere la propria ansia di separazione come parte della sua storia personale e non come conseguenza diretta del comportamento di Luca.
Luca, dal canto suo, comincia a verbalizzare la paura di “essere invaso” e di “non avere spazio per sé”, comprendendo come il suo silenzio sia un modo per evitare la perdita di controllo.
Il clima relazionale si fa più tollerante: la coppia riesce a confrontarsi senza attivare immediatamente il ciclo di attacco-ritiro. Il desiderio reciproco sembra riemergere come espressione di un incontro meno difensivo.
Il caso di Chiara e Luca evidenzia la difficoltà, tipica di molte coppie giovani contemporanee, di integrare i bisogni di autonomia e di dipendenza all’interno di una relazione stabile.
La terapia ha mostrato che la crisi non era segno di disamore, ma manifestazione di un conflitto evolutivo tra il desiderio di fusione e la paura di annullamento, riattivato da antichi modelli familiari .


Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 

Forum Engagement - 29 ottobre 2025

 

 
 

Soremax é stata invitata al Forum de l'Engagement del 29 ottobre al parc Phoenix di Nizza.

Dalle 14 alle 14.45 avremo uno spazio dedicato per presentare Soremax al pubblico.

 

 

 

Marta, il corpo come rifugio

© Pexels

Marta è una ragazza diciannovenne che vive con i genitori e la sorella minore di un anno Sonia, non lontano da Montpellier.
Fin dall’adolescenza ha mostrato una certa insicurezza e una forte sensibilità al giudizio altrui. Durante gli studi è stata oggetto di prese in giro per il suo aspetto fisico, esperienza che ha inciso profondamente sulla sua autostima. Da allora ha iniziato a usare il cibo come fonte di conforto, soprattutto nei momenti di stress o solitudine. Appena prende peso lascia il ballo che è la sua passione sin da bambina, appena torna a controllarsi ricomincia le lezioni. 
La madre ha una lunga storia di diete fallite e tende a criticare spesso l’aspetto della figlia maggiore, anche se con intenzioni “educative”. Il padre, più distante emotivamente, tende a minimizzare le difficoltà psicologiche, sostenendo che “Con la forza di volontà si risolve tutto”.
In questo contesto Marta riferisce di sentirsi poco compresa e di nascondere la propria sofferenza per non deludere i genitori. Marta percepisce la famiglia come affettuosa ma poco disponibile a parlare di emozioni. 
Marta e Sonia sono complici nella vita, escono spesso assieme ed hanno i loro primi flirt con comuni amici di scuola. Si confidano e spalleggiano dato che la loro mamma è ben poco interessata alle loro storielle con i ragazzi. Proprio un compagno di classe di Marta rappresenta il suo primo vero legame affettivo: Giacomo è un ragazzo dolce e premuroso con cui la ragazza sta proprio bene.
Al termine degli studi Marta cerca un semplice lavoro dato che non ha voglia di studiare mentre Giacomo si trasferisce a Montpellier per iscriversi a Scienze dell’Educazione (STAPS).
Il trasferimento di Giacomo viene vissuto molto male da Marta che si sente “abbandonata” e si ritrova ad essere molto gelosa. Non avrebbe pensato di stare così male ma teme che Giacomo incontri un’altra ragazza più carina di lei… Sonia cerca di rassicurarla, è assolutamente certa di Giacomo ma la sorella è veramente angosciata.
Marta, al momento solo un po’ sovrappeso inizia a mangiare di tutto, anche di notte, pasticcia e addirittura assume cibo già scaduto e in breve tempo prende molti chili.
Sonia è consapevole della grave sofferenza della sorella e la esorta a chiedere aiuto, oltretutto Marta ha preso tanti chili e dice di sentirsi “Bloccata nel corpo sbagliato” e di “Non avere più voglia di uscire, tanto non valgo niente, nessuno potrà mai accettarmi così.”
Marta viene in consultazione accompagnata da Sonia, che si comporta da “genitore” visto che i veri genitori hanno difficoltà a comprendere la sofferenza della ragazza.
Marta ci racconta che per la sua gelosia “patologica” Giacomo la ha chiesto una pausa, che ovviamente la ragazza vive come l’inizio della fine, cosa che non corrisponde a quanto Giacomo pensa.
Proponiamo un incontro tra Marta, Giacomo e noi, nel tentativo di ristabilire una comunicazione “sana” tra i due ragazzi.
Pur con difficoltà Marta si convince che Giacomo è preoccupato e non sa che fare dell’immotivata (dal suo punto di vista) gelosia della ragazza, e acconsente a tornare al paese per alcuni mesi, per rassicurarla e starle vicino.
Si tratta di un primo passo, ora occorre lavorare sul senso di abbandono che Marta vive appena sente di “perdere il controllo” nei confronti di Giacomo.
Il corpo di Marta sembra diventare una metafora del suo mondo interno: il peso rappresenta una difesa, un modo per contenere emozioni che non trovano parole. Il cibo è il suo linguaggio affettivo, un mezzo per colmare il vuoto emotivo e la mancanza di riconoscimento. 
L’obesità non è solo un sintomo fisico, ma un modo di essere nel mondo, una protezione contro l’esposizione, il giudizio, il rifiuto e l’abbandono.
Con l’aiuto di un accompagnamento nutrizionale Marta riprende (pur con fatica) a meglio gestire il cibo, in termini di quantità e qualità, e perdere alcuni chili, non solo riprende i suoi corsi di danza e può guardarsi allo specchio senza “Vedersi grassa come una balena…” (Parole sue).
Il lavoro di consapevolezza sui genitori non sortisce grande effetto, la mamma è sempre giudicante e poco empatica mentre il babbo è convinto (in cuor suo) che il cibo, il peso ed il corpo siano solo problemi che angustiano le donne, giovani o meno !
Giacomo, davvero colpito dalla sofferenza di Marta le propone di trasferirsi a Montpellier, potranno affittare uno studio assieme e poi la ragazza si troverà un lavoretto.
Giacomo chiede a Marta di continuare le sedute, talvolta assieme o individualmente, per affrontare i “suoi fantasmi” che in situazioni di stress psicologico emergono con forza: altresì prosegue il lavoro di consapevolezza alimentare per la ragazza, con l’accompagnamento che potrà portarla a vivere il cibo come nutrimento e non scudo o trasformarsi in un modo per allontanare il dolore emotivo che non riesce ad esprimere altrimenti.

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 



La "teoria delle finestre rotte"



© Pexels

Nel 1969 il professor Philip Zimbardo, (quello dell'esperimento precedente) docente all’università di Stanford decise di condurre un esperimento di psicologia sociale. Lo psicologo statunitense (di origini italiane) volle studiare il comportamento delle persone in una situazione creata apposta: lasciò due auto abbandonate in strada, due automobili identiche, della stessa marca, modello e colore. Una però la lasciò nel Bronx, una zona povera e conflittuale di New York, l’altra la lasciò a Palo Alto, ancora oggi una zona ordinata ricca e tranquilla della California.
Due auto uguali abbandonate, in due quartieri con popolazioni molto diverse. Con un gruppo di ricercatori nascosti a studiare il comportamento delle persone in ciascun sito.
L’esperimento fornì i primi risultati nel giro di poche ore: l’automobile abbandonata nel Bronx cominciò ad essere vandalizzata il giorno stesso. Dapprima furono rubate la radio, le ruote e gli specchietti, poi parti del motore. Ciò che poteva essere utilizzato fu rubato immediatamente, il resto dell'auto distrutta. Dall’altra parte del Paese invece, l’automobile abbandonata a Palo Alto, dopo una settimana risultava ancora intatta.
I ricercatori a questo punto decisero di fare un ulteriore esperimento: provarono a rompere un vetro della vettura parcheggiata in strada a Palo Alto, nella ricca California. Il risultato fu che si innescò anche per questa auto lo stesso processo, come nel Bronx a New York. Furto e vandalismo ridussero questo veicolo rapidamente ad un rottame.

La domanda era quindi: “Perchè la semplice rottura di un vetro in una macchina abbandonata in un quartiere presumibilmente sicuro è in grado di provocarne a breve la sua distruzione?”
La scoperta: quel fatto, il processo criminale, non era stato provocato dalla povertà, ma era successo qualcosa di diverso. Che aveva a che fare con la psicologia  sociale e con il comportamento umano. Da tale esperimento si comincerà a parlere della “Teoria delle finestre rotte”, molto utile per indagare i fenomeni sulla poverta ed i contesti sociali.

La teoria delle finestre rotte è una teoria criminologica sulla capacità del disordine urbano e del vandalismo di generare criminalità aggiuntiva e comportamenti anti-sociali. La teoria afferma che mantenere e controllare ambienti urbani reprimendo i piccoli reati, gli atti vandalici, la deturpazione dei luoghi, il bere in pubblico, la sosta selvaggia o l'evasione nel pagamento dei parcheggi, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi.
Ad esempio l'esistenza di una finestra rotta (da cui il nome della teoria) potrebbe generare fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere un lampione o un cassonetto, dando così inizio a una spirale di degrado urbano e sociale. 


Zimbardo ci ricorda che: “La linea tra il bene e il male è permeabile. Quasi chiunque può essere indotto ad attraversarla quando viene spinto da forze situazionali (ovvero dal contesto)”

 
In pratica ci si domandò: che pensiero produce la visione di un vetro rotto in un’auto abbandonata?  Trasmette un senso di deterioramento, di disinteresse e di non curanza. Più in generale trasmette la sensazione di “rottura” dei codici di convivenza. Come altri esperimenti successivi consentirono di rilevare: è il SEGNALE di un territorio con assenza di norme, privo di regole, dove si può fare di tutto. Ogni nuovo attacco subito dall’auto finisce poi con il ribadire e moltiplicare quell’idea. Fino all’escalation di gesti incontrollabili e violenti rivolti anche alle persone.

Chi di voi ha seguito la serie televisiva Blue Bloods con Tom Selleck, che veste i panni di Frank Reagan, capo della Polizia di New York, lo avrà sentito spesso citare la "teoria delle finestre rotte" ai suoi collaboratori, in riferimento ad alcune zone difficili della grande mela.

Negli anni ottanta una prima applicazione di tale teoria ha visto coinvolta la Metropolitana di New York. La Subway, come in gergo viene chiamata ancor oggi, era il luogo più pericoloso della città. Si cominciò combattendo le piccole trasgressioni: graffiti che deterioravano il posto, lo sporco dalle stazioni, ubriachezza tra il pubblico, evasione del pagamento del biglietto, piccoli furti e disturbi. I risultati furono evidenti: non trascurando le piccole trasgressioni si è riusciti a fare della Metro un luogo sicuro.
Successivamente, nel 1994, Rudolph Giuliani (anch'egli figlio di immigrati italiani) quando divenne sindaco di New York, basandosi sulla "teoria delle finestre rotte" e sull’esperienza della metropolitana promosse quella come regola della sua amministrazione: “la politica della tolleranza zero”. Che non aveva niente di rigido, nel senso normalmente inteso, bensì la formula di una strategia: quella di creare comunità pulite ed ordinate, non permettendo violazioni alle leggi e agli standard della convivenza sociale e civile. Il risultato pratico è stato un enorme abbattimento dei tassi di criminalità in tutta la città di New York.
In sostanza: la criminalità è più alta nelle aree dove l’incuria, la sporcizia, il disordine e l’abuso sono più alti. Se si rompe il vetro di una finestra di un edificio e non viene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare a nessuno? Allora lì si genererà la criminalità.
Se sono tollerati piccoli reati come il parcheggio in luogo vietato o il superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti? Si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi.

La Teoria delle Finestre Rotte afferma invece – ed è qui la novità, come si è detto – che la criminalità è invece un fenomeno sociale: fenomeno che non parte da un particolare tipo di persona ma da una “caratteristica”, da una infrazione alla regola. Appunto il vetro rotto “nell’ambiente circostante” che, se non riparato per tempo, comporterà fenomeni di emulazione anche violenta sulle cose e sulle persone.



Giulia, tra anoressia e bulimia

 

© Pexels
Giulia ha 21 anni ed è una studentessa universitaria che vive con i genitori e un fratello minore. Famiglia benestante, con valori centrati sul rendimento, l’autocontrollo e la buona immagine sociale. La madre è una figura dominante, perfezionista e molto attenta al corpo e all’alimentazione; il padre è più distaccato emotivamente.
Fin dall’infanzia, Giulia ha imparato che l’amore e l’approvazione passano attraverso la prestazione (essere brava, controllata, ordinata, “giusta”). Non è mai stata incoraggiata a esprimere rabbia, tristezza o fragilità. Le emozioni, soprattutto quelle negative, sono vissute come pericolose e da reprimere.
Giulia è sempre stata una studentessa diligente, perfezionista e sensibile al giudizio altrui. Ha mostrato tratti di ansia da prestazione e bassa autostima, con una tendenza al controllo come modalità di gestione delle emozioni.
 Durante l’adolescenza ha subito alcuni episodi di derisione da parte dei coetanei per il suo corpo (“un po’ in carne”), che hanno inciso profondamente sulla percezione di sé. Giulia inizia a sperimentare insicurezze legate al corpo e al confronto sociale. Le prime diete nascono da un bisogno di riconoscimento e di controllo, ma si trasformano progressivamente in un mezzo per gestire il vuoto emotivo e l’angoscia.
 Il corpo diventa il terreno su cui si esprime una tensione interna tra desiderio di autonomia e bisogno di approvazione.
L’esordio “ufficiale” del disturbo risale ai 18 anni, in concomitanza con un periodo di stress legato alla maturità scolastica. Inizialmente Giulia ha iniziato una dieta “per sentirsi più in forma”, riducendo progressivamente l’apporto calorico e aumentando l’attività fisica.
La restrizione alimentare e il dimagrimento progressivo offrono a Giulia una sensazione di potenza e padronanza: il controllo del corpo sostituisce la percezione di controllo sulla propria vita. Il cibo negato diventa simbolo di autonomia e purezza, mentre la fame diventa una forma di autodisciplina estrema.
Dopo mesi di restrizione, Giulia inizia a vivere episodi bulimici. Questi rappresentano il collasso del controllo e l’irruzione di parti psichiche scisse e represse. 
Nelle sedute ci racconta che: “…Le abbuffate esprimono un bisogno affettivo e orale non riconosciuto, un tentativo di “riempire” il vuoto interiore con il cibo, simbolo di nutrimento e amore.”
Non solo, Giulia ricorre anche al vomito quando cede alle abbuffate. Il vomito auto-indotto diventa il gesto purificatore: ciò che è stato introdotto viene espulso per non essere contaminata, né fisicamente né emotivamente.
Questo ciclo (riempire e svuotare) riflette la dinamica tra bisogno di fusione e terrore della dipendenza. Giulia desidera essere accolta, ma teme di perdere sé stessa se si lascia nutrire o amare.
Il corpo, per Giulia, non è solo un oggetto estetico, ma il campo di battaglia della sua identità.
Attraverso il peso, la fame e il vomito, costruisce un linguaggio corporeo che traduce conflitti psichici profondi:
Nel corso delle sedute verbalizza che: “Esisto solo se riesco a controllarmi e più dimagrisco più valgo”
Il cibo per Giulia ormai non è più nutrimento, ma mezzo di regolazione affettiva ed il corpo diventa, in senso simbolico, il luogo in cui si manifesta la difficoltà di integrare mente ed emozioni, desiderio e colpa, autonomia e bisogno.
Il lavoro terapeutico permette di affrontare la mai risolta ambivalenza verso la madre: Giulia idealizza e nel contempo rifiuta la figura materna, vorrebbe essere come lei ma capisce che ha bisogno di distaccarsi per vivere la sua vita.
Non solo, il feroce controllo del cibo e del corpo, con i successivi cedimenti bulimici, ci dicono quanto la sua identità sia fragile. Nelle mente di Giulia fame e sessualità sono vissute come pericolose e vanno negate. 
Giulia in seduta ricorda le difficoltà che aveva la madre per farla mangiare sin da piccola: bizzarri rituali per darle il cibo con il cucchiaino, con la mamma sempre nervosa al momento del pranzo o della cena.
Quindi una relazione primaria con la madre tramite il cibo vissuto come campo di battaglia piuttosto che momento emotivamente rassicurante e contenitivo.
Partendo da questi ricordi di Giulia possiamo affrontare l’ambivalenza nei confronti della madre, lavorare sulla separazione psichica delle due donne e nella costruzione di un’identità autonoma della giovane.
Un passaggio importante per Giulia é anche riconoscere e tollerare le proprie emozioni, soprattutto rabbia e bisogno di dipendenza, senza agire attraverso il corpo sia con il controllo anoressico che con il “cedimento” bulimico.
Anche un accompagnamento “reale” sul tema del cibo, ovvero prepararsi il mangiare, cucinarlo ed assumerlo, con consapevolezza e ritrovata pacificazione, aiuta Giulia a non confondere il cibo con le emozioni…
Nel caso di Giulia, il disturbo alimentare appare come una soluzione patologica a un conflitto identitario profondo: la difficoltà di separarsi, di riconoscersi come soggetto indipendente e di gestire i propri bisogni affettivi.
 L’anoressia e la bulimia diventano due facce della stessa medaglia: il tentativo di controllare e allo stesso tempo esprimere un dolore emotivo inespresso, utilizzando il corpo come linguaggio.

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 

Facebook: Social o manipolazione ?

  

© Facebook

Nel gennaio del 2012 Facebook ha condotto un esperimento all'insaputa di circa 700.000 mila utenti: molti di loro sono stati esposti a "contenuti emotivi" delle pagine che osservavano di tipo fortemente positivo, altri a contenuti molto negativi.
A seconda dei contenuti osservati, le persone postavano commenti positivi o negativi come reazione a quanto letto. Era evidente un fenomeno ben conosciuto in psicologia come "contagio emotivo".
Quando venne pubblicato il risultato dello studio vi furono critiche e pesanti reazioni per tale esperimento, peraltro legale, su temi così delicati come l'etica e la privacy on-line.
Forse non tutti sanno che l'algoritmo sottostante a Facebook e che ci propone quotidianamente gli aggiornamenti, che vediamo scorrere nella nostra pagina si basa già su una serie di principi, totalmente automatizzati, stabiliti per dare priorità a uno o all’altro contenuto in base agli amici con cui entriamo più spesso in contatto o alla popolarità di uno stato o di una foto. Come dire, l'algoritmo ci indirizza già verso determinati contenuti, pensati per noi.
Nel caso dell'esperimento i ricercatori di Facebook hanno utilizzato il software Linguistic Inquiry and Word Count, ed i risultati hanno mostrato come la condivisione di emozioni positive ci porti ad esprimerne di altrettanto ottimistiche mentre vedere amici e conoscenti di cattivo umore ci condiziona in questo senso. 
Da notare che alla sottoscrizione di Facebook noi tutti accettiamo le condizioni di questo servizio e le relative profilazioni. Quindi nulla di illegale, ma credo che ben pochi di noi siano consapevoli di quello che sottoscrivono: poi gli algoritmi che diavolo sono? Mi risponda chi lo sa e ne conosce l'utilizzo. Facebook cambia il suo algoritmo quando e come vuole senza doverci chiedere ulteriore assenso tacito o esplicito.
E' anche vero che nel 2012 oltre 340.000 persone si sono recate a votare in elezioni del Congresso Americano dopo avere letto commenti di amici su Facebook, orientati in un senso o nell'altro (Democratici o Repubblicani) e qui non si parla di scegliere una bevanda o un hamburger ma si tratta di "comunicazione politica".
Va detto che il gruppo di ingegneri di Facebook ha lavorato in collaborazione con ricercatori delle Università della California e della Cornell, stupiti per le reazioni della stampa e dei media in generale per tale "ricerca". Gli ingegneri di Facebook hanno manipolato l'algoritmo per orientare le reazioni e studiare l'effetto sugli ignari lettori, senza chieder alcun permesso o scusarsi poi. Ad onore del vero uno degli ingegneri, tale Adam Kramer, membro della squadra di analisi dei dati di Facebook e fra gli autori dello studio ha detto che lo scopo della ricerca era rendere migliore il servizio e si è mostrato:  "... Dispiaciuto per l'ansia causata nei lettori". Come dire che lo studio è stato fatto per i lettori e non c'è motivo di non credere alla buona fede di Facebook.

E voi cosa ne pensate...?

Aggiornamento di settembre 2012: su un server ad accesso libero sono stati trovati i dati di 419 milioni di utenti Facebook, account e numeri di telefono. Facebook, interpellata, ha minimizzato la cosa e assicurato che ora tutto è sotto controllo e non accadrà più. 

No comment...

Il "bene" vince sempre sul "male"...?

  

© Copertina libro Raffaello Cortina Editore
Cosa succede se si mette della brava gente in un posto “cattivo”? Riuscirà il bene a vincere sul male o, piuttosto, trionferà il male? Può una persona buona commettere atti malvagi? Qual è il limite attraverso il quale nelle persone si scatena il male? Sono le situazioni in cui veniamo posti che determinano il nostro comportamento?


Nell'anno 1971 lo psicologo Philip Zimbardo (di origini italiane), docente all'Università di Stanford ideò un'esperimento che intendeva riprodurre una situazione carceraria con dei volontari per studiare il loro comportamento. Nei sotterranei di un edificio fu ricostruito un carcere ove fare interagire 24 studenti universitari per svolgere i ruoli di detenuti e guardie. Tutti i ragazzi vennero intervistati e sottoposti ad una batteria di test di personalità al fine di eliminare quelli con problemi psicologici, malattie o precedenti criminali e/o di abuso di droghe. I volontari decisero di partecipare per un periodo di due settimane in cambio di 15 dollari al giorno. 12 diventarono guardie carcerarie, gli altri 12 i loro prigionieri. In questo esperimento non c’erano mezze misure; affinché lo studio potesse essere efficace, doveva avvicinarsi il più possibile all’esperienza reale dei prigionieri e delle guardie.
I “prigionieri” vennero arrestati e prelevati con una macchina della polizia a sirene spiegate, mentre svolgevano le loro attività quotidiane. Poi furono loro rilevate le impronte digitali, furono bendati e messi in una cella, spogliati e perquisiti. Venne loro data una divisa e un numero.
Gli altri partecipanti vennero trasformati in guardie e perciò vestiti in uniforme e dotati di manganello.
Ogni cella ospitava tre prigionieri e comprendeva tre lettini. Altre camere erano utilizzate per le guardie carcerarie. Uno spazio molto piccolo era designato come la camera di isolamento “il buco”, e un’altra piccola stanza serviva da cortile della prigione. Zimbardo e collaboratori osservavano il comportamento dei prigionieri e delle guardie con telecamere nascoste e microfoni. 
Dopo solo due giorni dall'inizio dell'esperimento accaddero i primi episodi di violenza tra i "detenuti" e le "guardie". Scontri sia verbali che fisici, intimidazioni ed umiliazioni. I detenuti spesso non obbedivano agli ordini ed alle consegne delle guardie che erano sempre più aggressive e sadiche nei confronti dei prigionieri. Al quinto giorno vi fu una rivolta da parte di alcuni prigionieri e la rappresaglia delle guardie fu rapida e brutale: vennero rimossi i letti dalle celle, i "rivoltosi" furono sbattuti in isolamento e tutti i “prigionieri” incominciarono ad essere picchiati. Al sesto giorno la situazione stava volgendo al dramma. Sconcertato, Zimbardo decise di interrompere immediatamente l'esperimento. 
Ma a quali effetti erano andati incontro le persone coinvolte?
I giovani che precedentemente all’esperimento si erano dichiarati pacifisti, nel loro ruolo di guardie, umiliarono e aggredirono fisicamente e verbalmente i “prigionieri”; alcuni di essi addirittura segnalarono piacere nel farlo.
I “detenuti", nel frattempo, cominciarono rapidamente a mostrare i classici segni del crollo emotivo, assomigliavano a prigionieri di guerra o pazienti di un ospedale psichiatrico. 
Lo stesso Zimbardo ammise di essersi immerso nel ruolo di “direttore della prigione”. Uno dei risultati più importanti dell'esperimento fu proprio la sua personale trasformazione in una figura istituzionale rigida; una figura più interessata alla sicurezza della sua prigione piuttosto che al benessere dei suoi partecipanti. Zimbardo stava perdendo il contatto con la realtà, la "prigione" era divenuta la sua realtà e lui si stava trasformando in Lucifero! Alla divulgazione dell'esperimento vi furono molte critiche, venne anche definito immorale. Al di là del giudizio sull'esperimento, però occorre porsi qualche interrogativo: in quale momento od in quale situazione una persona "normale" attraversa il confine tra il bene ed il male? Scrive Zimbardo: 
Possono avvenire trasformazioni del carattere umano in nuove  “situazioni sociali”, in cui le forze situazionali sociali sono sufficientemente potenti da riuscire a sopraffare, o a sopprimere temporaneamente, attributi personali di moralità, di compassione, o senso di giustizia.
Studi successivi (Penitenziario USA di Rikers, 1995) hanno cercato di comprendere come le guardie possano non percepire sensi di colpa derivanti dalle violenze inflitte ai detenuti. Alcune guardie non si rendevano davvero conto della tragica trasformazione in aguzzini, sul posto di lavoro. In quel carcere i livelli di violenza contro i detenuti erano così alti che molte guardie furono ufficialmente accusate di aver inflitto gravi aggressioni ai prigionieri e condannate a pesanti pene.
Molti ricorderanno le drammatiche immagini della prigione di Abu Ghraib, soldati e soldatesse che umiliavano e torturavano i prigionieri, con tanto di foto e selfie mettendosi in posa e sorridendo...
lo stesso Zimbardo suggeriva che gli abusi di Abu Ghraib potrebbero essere stati esempi reali degli stessi risultati osservati nel suo esperimento. Non a caso nel 2004 in qualità di perito partecipò al processo contro i militari americani colpevoli delle vessazioni sui prigionieri nel famigerato carcere iracheno.
Scrive Zimbardo nel suo libro:
Il male è l’esercizio del potere di nuocere intenzionalmente (psicologicamente), di procurare dolore (fisicamente), o distruggere (mortalmente o spiritualmente) altri. Solo poche persone sono in grado di resistere alla tentazione di cedere al potere e al dominio"

 

Philip G. Zimbardo, L'effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008

La storia di Michele

© Pexels

Michele non dimenticherà mai il giorno in cui mise piede a Parigi. L’aeroporto Charles de Gaulle lo accolse con il suo caos, annunci in francese che scorrevano veloci e il brusio di una città che non dorme mai. Aveva 25 anni, un buon lavoro e un biglietto di sola andata verso un futuro che, almeno nella sua mente, sembrava perfetto.
Le prime settimane furono un turbinio di emozioni. Camminava lungo le rive della Senna come se stesse vivendo in una cartolina, assaporando ogni dettaglio: il profumo del pane appena sfornato, il vociare dei caffè, le note di un violino sul Pont Neuf. Al lavoro, i colleghi erano cordiali, la lingua di lavoro era l’inglese, che Michele parlava molto bene e si sentiva vivo, capace, pronto a conquistare la città dei sogni.
Ma, col passare dei mesi, la magia cominciò a dissolversi. Sempre più spesso doveva confrontarsi con testi, telefonate e riunioni in francese. Michele aveva studiato il francese ma gli sfuggivano le sfumature e molte battute dei colleghi in riunione lo facevano sentire fuori posto. Le mail e le riunioni, un tempo in inglese, divennero fonte di ansia: interpretazioni possibili, sfumature culturali, toni da decifrare. Michele cominciò a controllare decine di volte ogni messaggio prima di inviarlo, con il cuore che batteva forte e le mani che tremavano leggermente.
Il lavoro, da stimolante, diventò opprimente. Le responsabilità crescevano e ogni decisione pesava come un macigno. La sera, nel piccolo monolocale in affitto, il silenzio era il suo peggior nemico. Michele non dormiva più di quattro-cinque ore per notte. Ogni rumore – un clacson, il passo di un vicino, il ticchettio dell’orologio – lo faceva sobbalzare. I pensieri correvano incessanti: “Non sto facendo abbastanza… Non mi adatterò mai… Forse ho sbagliato tutto.”
L’insonnia portò con sé altri sintomi: perdita di appetito, difficoltà a concentrarsi, irritabilità. Le passeggiate nei parchi e le visite ai musei, un tempo fonte di gioia, ora sembravano compiti pesanti. Michele sentiva un senso di colpa verso se stesso: aveva lasciato Catania per un sogno, e invece si sentiva intrappolato in una città che amava ma che allo stesso tempo lo intimidiva.
Fu allora che decise di chiedere aiuto. Iniziò a frequentare una terapeuta italiana che gli propose un percorso di psicoterapia. Michele imparò a osservare i propri pensieri senza esserne travolto. Scoprì che l’ansia poteva essere gestita, che il sonno poteva essere protetto con piccole routine: ridurre la caffeina, respirazioni profonde e meditazione serale.
La terapeuta lo incoraggiò anche a costruire una rete sociale: partecipare a gruppi di expat, corsi di lingua ed eventi culturali. Michele iniziò lentamente a incontrare persone con esperienze simili. Raccontare le proprie difficoltà e ascoltare quelle altrui lo fece sentire meno solo.
Con il tempo, le notti cominciarono a diventare più tranquille. Le giornate di lavoro, pur impegnative, non lo angosciavano più. Imparò a celebrare i piccoli successi: una presentazione in francese senza ansia, un pranzo con un collega, un pomeriggio ad un museo senza sentirsi sopraffatto. La città ora lo spaventava di meno, come un enorme puzzle in cui stava lentamente trovando il suo posto.
Michele poi si rese conto di un aspetto da lui poco considerato, che ora gli pesava sempre più. Il clima di Parigi. I suoi colleghi di lavoro ne erano entusiasti ma lui, catanese di origine, non riusciva proprio ad adattarsi. Gli mancava il sole ed il mare della sua bella terra. Senza pensarci troppo decise di trasferirsi appena un posto di lavoro della sua azienda si liberò nella filiale di Nizza.
Ne parlò con la terapeuta che sostenne la sua decisione ed in poche settimane Michele scese al “sud”. Consapevole dell’importanza del percorso psicologico intrapreso a Parigi cercò anche a Nizza un terapeuta italiano per proseguire il lavoro di introspezione già ben avviato.
Michele aveva vissuto il trasferimento a Nizza come: “Il secondo tempo di un film, in cui la trama si amplia e si comprende meglio la narrazione (parole sue)”.  
L’impatto con Nizza era stato molto positivo, anche per il gran numero di italiani trasferiti o residenti nella città. Consapevole dell’importanza di una buona conoscenza del francese si era subito iscritto ad un’associazione culturale per seguire lezioni ed uscite culturali, rigorosamente in francese. Il lavoro di psicoterapia ora poteva mettere a fuoco il suo desiderio di avere una compagna. In seduta aveva ammesso che gran parte del suo volere lasciare Catania era legato ad una delusione amorosa di una sua ex compagna di scuola con cui era stato per molti anni. Lei lo aveva lasciato di colpo per un altro e Michele aveva vissuto delle crisi di angoscia a seguito di ciò.
Nizza invogliava Michele a “socializzare” molto di più. Già nel suo ufficio aveva conosciuto una collega ed un venditore italiani, con cui spesso usciva alla sera per un bicchiere in compagnia.
Anzi meglio, la collega napoletana, che aveva preso in simpatia Michele gli aveva presentato di li a poco una concittadina “single”. Michele e Giovanna hanno così cominciato a frequentarsi e quasi senza accorgersene si sono “messi assieme”.
Michele ora utilizza le sedute per analizzare i suoi sentimenti verso Giovanna che lo attrae molto e che considera una persona di valore. Giovanna dal canto suo è consapevole e desiderosa di avere una relazione appagante con un ragazzo maturo quale è Michele.
Nessuno può sapere cosa riserverà il futuro a Giovanna e Michele. Ora i due ragazzi sono consapevoli e desiderosi di conoscersi e giocare al meglio le carte che il destino ha loro consegnato…

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 







Festa delle Associazioni, giardino della Place Wilson


L'Associazione SOREMAX (loi 1901) di cui sono co-fondatore sarà presente al jardin de la Place Wilson sabato 13 settembre assieme a tante altre Associazioni.

 

La Mairie de Nice tramite la sua Maison des Associations intende fare conoscere la moltitudine di Associazioni che, soprattutto tramite volontari, si occupano di promozione del benessere, della salute, della consapevolezza civile e solidarietà nella città di Nizza.

 

 


Per maggiori informazioni consultate il sito seguente:
 
https://www.nice.fr/agenda/nice-fete-sa-rentree/

 

Il silenzio di Martina

© Pexels

Martina ha 25 anni, é una ragazza dinamica, piena di amici e corteggiata dai ragazzi. Lavora in uno studio di consulenza ed il profilo LinkedIn descrive una giovane donna in carriera. Ma dietro quel curriculum si nasconde una lunga storia di dolore invisibile. Una storia cominciata molti anni addietro, quando ha tentato la sua prima dieta.
Il disturbo alimentare di Martina non è nato all’improvviso. Come spesso accade si è insinuato lentamente, prendendo forma nel tempo. Le prime abbuffate sono arrivate durante l’ultimo anno delle superiori, in un momento di forte stress emotivo. Aveva appena vissuto una delusione affettiva, si sentiva sotto pressione per la maturità e avvertiva su di sé il peso delle aspettative familiari.
In quel periodo Martina ha cominciato a controllare rigidamente l’alimentazione. Saltava i pasti, si pesava più volte al giorno e contava le calorie con precisione maniacale. Ma il corpo non era l’unico bersaglio: il cibo diventava, sempre più, un modo per sedare il dolore, una valvola di sfogo per emozioni che non sapeva nominare.
“Mi sembrava di poter controllare almeno quello, il cibo. Era l’unica cosa che dipendeva da me. Ma presto mi è scappato tutto di mano.”
Martina soffre di bulimia nervosa, un disturbo ancora troppo poco compreso e spesso sottovalutato. A differenza dell’anoressia, che spesso viene notata per la perdita drastica di peso, la bulimia può restare nascosta per anni. Chi ne soffre, infatti, tende ad avere un peso normale o leggermente fluttuante. Ma dentro, la sofferenza è intensa.
Il ciclo è sempre lo stesso: restrizione → abbuffata → senso di colpa → compensazione. Una gabbia mentale che diventa via via più stretta. Il senso di vergogna è talmente profondo da impedire, a lungo, la richiesta d’aiuto.
Gaia, una cara amica di Martina, ha tentato spesso di aiutarla con indirizzi di psicologi nella speranza che la ragazza si decida a chiedere, finalmente, aiuto.
Dopo una crisi di bulimia, particolarmente violenta, Gaia l’affronta e “costringe” a prendere appuntamento con uno psicoterapeuta.
Martina inizia una psicoterapia, ma con grande esitazione, teme di “non essere abbastanza malata” o di non meritare attenzione. Ma fin dalle prime sedute ha compreso che il disturbo non era solo nel cibo. Il sintomo alimentare era la punta di un dolore più profondo: il bisogno di controllo, la fatica di gestire le emozioni, il terrore del rifiuto, il senso di inadeguatezza che da anni le faceva compagnia.
I colloqui di Martina affrontano vari aspetti della vita della ragazza: iniziamo dal tentativo di regolarizzare l’assunzione del cibo, per interrompere il ciclo restrizione-abbuffata. In parallelo occorre aumentare la consapevolezza emotiva per riconoscere rabbia, tristezza e frustrazione.
Parte assai importante è ridefinire l’autostima, troppo legata al peso, al corpo ed alla performance, in un’immagine idealizzata di Martina impossibile da “tenere a lungo”.
Anche la costruzione di strategie alternative per affrontare il disagio è assai utile: scrittura, meditazione, sport e relazioni più autentiche. Per Martina non sono mancati momenti di crisi. Ci sono stati giorni in cui le abbuffate sono tornate, ma con meno violenza. Giorni in cui ha imparato a non punirsi, ma a chiedersi: “Cosa mi sta dicendo questa fame?”. Domande nuove, per rompere vecchi automatismi.
Il medico di base voleva prescrivere degli ansiolitici per affrontare l’ansia e i pensieri ossessivi ma Martina non ha voluto assumerli, ci dice: “…Il cuore del cambiamento è relazionale: costruire fiducia e sperimentare nuovi modi di stare al mondo.”
La storia di Martina non è un’eccezione. I disturbi alimentari – bulimia, anoressia, binge eating – colpiscono milioni di persone nel mondo. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 3-4% delle donne giovani soffre di bulimia nervosa, ma i numeri sono probabilmente sottostimati a causa della vergogna e del silenzio.
Viviamo in una società in cui l’immagine del corpo è costantemente sotto osservazione, in cui si insegna a sorridere, a performare, a "funzionare", ma raramente a sentirsi. Dove il disagio prende forme silenziose e accettate, come la fame che si nasconde nei cibi ingeriti in fretta, nelle corse in bagno per vomitare, nei lunghi sensi di colpa.
Oggi, Martina non dice di essere guarita. Dice piuttosto di essere “In cammino”. Ha imparato a distinguere la voce del disturbo da quella della propria verità. Sa che ci saranno giorni buoni e giorni difficili, ma non è più sola. Ha trovato uno spazio dove essere vista, senza giudizio. E, soprattutto, ha scoperto che non deve essere perfetta per essere amata.

 

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67 

 

Il burn-out di Veronica

© Pexels

Veronica proviene da un paesino del sud Italia, luogo tranquillo in cui il tempo scorre lentamente.
La famiglia è semplice, il padre lavora in Comune e la mamma accudisce la casa e le tre figliole. Veronica è la più grande ed è la sola che manifesti il desiderio di studiare dopo le scuole superiori, che frequenta con ottimi risultati. Il papà spera che Veronica passi il concorso per entrare in Comune ma la ragazza è desiderosa di proseguire a studiare informatica. 
Decide di iscriversi all’Università nella città capoluogo della sua Regione e va a convivere con due ragazze del suo stesso paesino, condivideranno le spese e quello che, per tutte e tre, rappresenta un grande passo rispetto alla tranquillità familiare.
All’Università ha i suoi primi flirt, piace molto ai ragazzi per la sua dolcezza ed innata simpatia ed è ben consapevole che troverà il “ragazzo giusto” solo più avanti quando si sarà stabilizzata per il lavoro, certa di dovere lasciare il suo paesino per una città del nord Italia.
Al termine dell’Università ha un’offerta di lavoro interessante a Milano. 
Si trasferisce con una ragazza conosciuta all’Università, che lavorerà anche lei a Milano, ed assieme iniziano a conoscere la grande città nel bene e nel male.
L’impatto con il lavoro presso una grande società informatica multinazionale è duro per Veronica: l’ambiente è asettico, i colleghi freddi e scostanti, sente anche un filo di razzismo per lei che viene dal sud. Cerca di non farsi contagiare da questa brutta impressione, si butta nel lavoro (che le piace) ed evita di andare in mensa con i colleghi per evitare battutine e stupida ironia su di lei.
Nel bar dove mangia spesso conosce Pino, un ragazzo “terrone” come lei. Hanno reciproca simpatia ed iniziano a frequentarsi anche fuori dell’orario di lavoro.
Sono consapevoli che hanno bisogno l’uno dell’altra, sono complici nell’affrontare la complessità di una città come Milano, votata al lavoro e con ritmi forsennati. In modo del tutto naturale iniziano una storia.
Dopo un anno hanno la possibilità di andare a convivere, un passo importante e positivo che rafforza il loro legame.
Veronica è sempre sotto pressione per il lavoro, non solo, le hanno dato da coordinare alcuni suoi colleghi più giovani con la promessa di una promozione.
Veronica si butta a capofitto nella nuova sfida, fa spesso tardi al lavoro per raggiungere gli obiettivi lavorativi suoi e del suo piccolo gruppo. 
I risultati sono buoni, meglio di quanto previsto e quando Veronica  ha il colloquio con il suo capo per definire il salto di carriera rimane molto delusa: dovrà aspettare almeno un anno perché il budget non consente la promozione sperata. Potete immaginare lo sconcerto di Veronica, non reagisce e torna a casa per chiudersi in un assoluto mutismo.
Dopo poche settimane, un sabato, Veronica è costretta ad andare in ufficio per un serio problema che mette in allarme il gruppo di informatici dell’azienda: pensavano tutti di cavarsela in poche ore ma alla sera di sabato sono ancora in ufficio ed “in alto mare”. Senza quasi accorgersene Veronica comincia ad avere difficoltà a stare in piedi, barcolla, vede male e sente un pugno allo stomaco. I colleghi la vedono bianchissima in viso e si preoccupano per lei. Un ragazzo che è anche volontario in una ambulanza di Milano la aiuta, la mette in posizione di sicurezza ed assiste.
Veronica stenta a riprendersi, é senza forze, le tremano le gambe e Pino viene a prenderla al lavoro. Le consigliano di andare al Pronto Soccorso ma Veronica si rifiuta, vuole solo tornare a casa con il suo ragazzo.
La notte é molto tormentata per Veronica, è agitatissima, in ansia, vomita, piange ed il “povero” Pino non sa che fare…
Consultano il loro medico di base che sentenzia senza esitazione: Veronica è in pieno burn-out !
La ragazza è incredula, ha sentito parlare di burn-out ma le sembra solo una scusa per lavorare di meno.
Invece il burn-out è la reazione “normale” che una persona vive nel momento in cui si è gettata a capofitto nel lavoro, si è disillusa per il mancato riconoscimento di quanto svolto, poi si sente frustrata e distaccata e lavora in modo “automatico” e per finire giunge all’esaurimento delle forze mentali che, ovviamente, impattano sul corpo con i sintomi prima descritti.
Possiamo definire il burn-out uno stress lavoro correlato, che si evidenzia con sintomi fisici che sottendono un’impasse psicologica importante della persona. 
Il burn-out era stato studiato sin dagli anni settanta, inizialmente si pensava colpisse solo le persone che facevano mestieri “di aiuto agli altri”, medici, infermieri, vigili del fuoco, polizia ecc. con l’espressione: “… Chi mette troppa passione nel lavoro prima o poi “si brucia”.
Poi però ci si era resi conto che tale “reazione” valeva per ogni attività, nel momento in cui al carico di lavoro faceva seguito una disillusione, una delusione, un mancato riconoscimento del lavoro svolto o cattive relazioni tra i colleghi o addirittura un “clima” aziendale malsano.
Per Veronica non è facile accettare che si è “bruciata”, ha dato molto (troppo) in azienda ed ora è senza energie psichiche per continuare.
Il medico le scrive un mese di malattia, tanto per cominciare e, soprattutto, la convince a rivolgersi ad uno psicoterapeuta per una consultazione. 
Veronica giunge al colloquio molto triste e demotivata, non si capacita che tutto il suo impegno, la serietà e la dedizione nel suo lavoro non sia stata compresa, anzi le hanno fatto delle promesse non mantenute.
Mai si sarebbe aspettata una delusione così cocente, si sente presa in giro e senza energie per continuare il lavoro. Veronica è costretta a “resettare” ciò che pensa del lavoro, un’aspetto idealizzato che mal si concilia con la realtà in cui si è trovata ad agire. Non è facile ri-posizionarsi rispetto al lavoro, ovvero togliere illusione ed idealizzazione per tornare con i piedi per terra: il lavoro è parte della vita ma non la vita stessa, chi è bravo all’Università spesso non è pronto per affrontare il mondo del lavoro che ha coordinate, valori e dinamiche molto complesse.
Veronica si prende un paio di mesi di malattia per “curare” il fisico e recuperare il sonno che aveva perduto nei momenti peggiori poi, dopo averne parlato in seduta, decide di andare dal suo capo per chiedere l’aumento di stipendio e quella promozione attesa. Al colloquio è tranquilla, non ha nulla da perdere, argomenta serenamente il tutto ed aspetta la reazione del suo capo. 
Riceve le solite risposte evasive e fumose e Veronica lascia il colloquio “leggera” e decisa a lasciare l’azienda, per un’informatica è facile trovare altro e di meglio…
Veronica al termine della malattia si dimette, lascia anche Milano che le ha dato molto ma portato via forse troppo e, d’accordo con Pino, tornano nel "loro sud".
Ora i due ragazzi sono a Catania, lei lavora in un istituto di ricerca e Pino, che è ragioniere, da un commercialista. Convivono ed hanno il serio proponimento di avere un figlio…

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/67











 

Emma e Manon

© Pexels

Emma e Manon sono madre e figlia. Anni fa il papà è mancato per un’incidente d’auto mentre rientrava da un viaggio di lavoro. Manon aveva nove anni e conserva un buon ricordo del papà, che la faceva giocare ed era molto dolce con lei. Emma aveva dovuto “riprendersi” subito dal drammatico evento per proteggere Manon e farla crescere con tutto l’affetto e l’attenzione possibile. Proprio per questo aveva deciso di lavorare part time per seguire la figliola e dedicarle del tempo nel dopo scuola. Ne consegue che le due donne sono molto legate e “complici” nella vita però la madre non aveva mai dimenticato il suo ruolo e la sua funzione educativa.
Manon ha le idee chiare, vuole studiare legge per diventare avvocato ed occuparsi soprattutto di diritto familiare, che sente più come una missione che come lavoro.
La mamma la sostiene in questa sua aspirazione, ne è anche orgogliosa, come ne sarebbe stato anche il papà.
Emma da quando è mancato il marito ha perso molto la voglia di cucinare in casa, prepara dei semplici piatti e sovente si arrangia con dei surgelati che ha in casa. Manon invece si dedica alla cucina con passione e sempre più spesso è lei che cucina per entrambe. A Manon piace cucinare piatti complessi che prepara con cura ed “offre” alla mamma per invogliarla ad assaggiare delle bontà.
Chi vede assieme le due donne rimane colpito: sembrano sorelle, molto simili di viso e corporatura, spesso poi vestite in modo simile.
Al termine della maturità Manon si iscrive a legge che frequenta con grande dedizione ed interesse e supera gli esami senza fatica. La mamma la sostiene poi a fare un anno in Erasmus all’estero, per affinare la sua formazione. La scelta va all’Università per Stranieri di Perugia in Italia, anche per motivi affettivi, dato che il nonno materno di Emma era nativo proprio di Perugia.
Manon trova una sistemazione a Perugia con altre due ragazze francesi che studiano lingue ed apprezza il buon vivere nella città che accoglie studenti di tutto il mondo.
Ha anche qualche flirt con dei ragazzi ma sono solo storielle, il suo obiettivo è chiaro, tornare a Nizza per intraprendere la carriera di avvocato come ha ben previsto.
Quando torna la prima volta a Nizza da Perugia trova la mamma triste ed “appesantita”, certo la lontananza ha i suoi effetti soprattutto su Emma. Durante le vacanze natalizie Manon si rende conto che la mamma si abbuffa di piatti salati e dolci in gran quantità. Ne parla con la mamma che minimizza e le dice che invecchiando è diventata golosa e quindi non deve preoccuparsi. Una sera dopo cena Manon scopre la mamma in bagno intenta a vomitare il copioso cibo che ha mangiato poco prima. È spaventata e preoccupata, non sa che fare ed affronta la mamma direttamente. Emma le confessa che da molto si abbuffa e poi vomita a volte alterna giorni di digiuno e poi si ricomincia. Manon vuole aiutare la mamma, comprende che sta male da tempo e che il distacco a Perugia ha accentuato la sua sofferenza che si riversa sul cibo.
Vorrebbe accompagnare la mamma dal medico per parlarne con lui ma la mamma si rifiuta perché dice di vergognarsi troppo.
Manon si sente impotente ed angosciata, sa di essere la sola che può aiutare la mamma ma non sa che fare. Ha un’idea, propone (quasi impone) alla mamma, che può fare il tele-travail, di seguirla a Perugia ed affittare un monolocale assieme per tutti i mesi restanti.
Non solo, tramite un suo professore contatta uno psicologo e convince la mamma ad andare tutte e due in seduta. Iniziano il percorso di terapia familiare che lascia emergere la mai sopita sofferenza della mamma per il grave lutto e la fatica psicologica, al limite dell’annullamento di sé, per seguire e proteggere Manon.
Ma per lavorare su tali temi occorre continuare le sedute a Nizza. Il caso vuole che il professore che ha consigliato Manon mi conosca per un seminario di formazione svolto proprio a Perugia, anni fa. Il collega mi invia le due donne, per proseguire i colloqui di coppia. Dagli incontri emerge chiaramente che Emma non si è mai concessa nulla, vive della luce riflessa e dell’orgoglio per la figlia ma ha eclissato se stessa. Questa consapevolezza si scontra con i sensi di colpa di Emma che non si “autorizza” a vivere per se stessa, come se ciò portasse via qualcosa alla figliola. Verbalizzare ciò è il passo iniziale per un processo di “differenziazione” delle due donne, che non vuole dire perdersi ma invece valorizzare le differenze.
Di comune accordo Manon “costringe” la mamma a fare la spesa e cucinare le pietanze per loro due con una dieta sana e bilanciata e mangiano assieme in un momento conviviale. Per Emma non è facile, ovviamente, anche perché si ritrova ad avere del tempo per sé che potrà occupare in qualcosa che desidera e le piace. Si iscrive ad una Associazione che aiuta i bambini a fare i compiti dopo la scuola, sfruttando le sue conoscenze di materie scientifiche. Emma un giorno in seduta verbalizza che “riempire” il suo tempo le permette di percepire molto meno il vuoto che altrimenti poteva colmare soltanto abbuffandosi per poi sentirsi in colpa per il cedimento psicologico che viveva.
Il lavoro continua…

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/679













I sintomi di Adriana

© Pexels

Adriana è una ragazza trentenne che decide di lasciare l’Italia per trasferirsi in Francia e cercare un lavoro più soddisfacente. È infermiera ed ha sempre lavorato all’Ospedale di Taranto, sua città natale, con turni massacranti e basso stipendio. Le spiace allontanarsi dalla famiglia dato che è figlia unica e lascia il fidanzato “storico” dopo dieci anni di relazione in cui lui non si è mai deciso a proporle il matrimonio e Adriana pensa sia ormai una storia troppo sfilacciata. Sente parlare di Nizza da una collega che ha già avviato la procedura per il riconoscimento del titolo di studio per lavorare come infermiera in Francia. Conosce poco Nizza, viene alcune volte come “turista” ed è piacevolmente colpita dalla città. Conosce il francese scolastico e, prima di fare il grande passo, prende lezioni private di lingua. Adriana ora è pronta a trasferirsi, inizialmente alloggia dalla collega italiana che è già inserita in Ospedale ed inizia a lavorare presso una clinica convenzionata. Gli orari sono molto più “normali”, raramente lavora nel fine settimana e lo stipendio più elevato che in Italia. È contenta della sua scelta, ha però difficoltà a legare con le colleghe del lavoro che le sembrano cortesi ma “freddine” nei rapporti interpersonali. Di fatto frequenta solo la sua collega italiana che però sta per trasferirsi a Lione a seguito di una offerta lavorativa molto interessante. I fine settimana spesso sono noiosi quindi decide di iscriversi ad un corso di yoga. Adriana è molto contenta della sua scelta, lo yoga l’aiuta a prendere coscienza di sé, concentrarsi e sente una “buona energia” nelle persone che frequentano con lei il corso. Dopo le lezioni fa spesso uno spuntino in un locale vicino e li conosce Karim, un ragazzo tunisino che non nasconde interesse per lei. Adriana non vorrebbe iniziare una storia ma si lascia convincere dalla dolcezza del ragazzo. Si frequentano per oltre un anno sino a quando, di comune accordo, decidono di andare a convivere in una casetta che affittano assieme. Stanno bene e cominciano a pensare ad avere un figlio, grande desiderio di Adriana, che sente "l’orologio biologico" correre. Un giorno Adriana dimentica il suo cellulare in clinica ed usa quello di Karim per prenotare una pizzeria per la sera stessa. Rimane sorpresa da una seria di chiamate a Karim da parte di una certa Afef. Chiede al ragazzo chi sia ma riceve delle risposte evasive. È perplessa ma non vuole essere “paranoica” e farsi strani film, però “un tarlo” continua a non darle pace… Si ricorda lo “strano” numero e il giorno successivo decide di chiamare direttamente; scopre che è un Hammam: Afef è una delle ragazze del centro, con tanto di foto sul sito e non vi è dubbio che la fanciulla non faccia solo massaggi rilassanti! Potete immaginare lo sconcerto il dolore e la rabbia di Adriana, nello scoprire cosa potesse avere fatto “il suo Karim” con quella ragazza. Lo affronta la sera stessa tra urla e pianti. Karim è costretto dall’evidenza ad ammettere che nel frequentare l’Hammam ha visto parecchie volte Afef, ma spergiura che è “solo” un fatto fisico! Adriana si sente ancor più male, è una bellissima ragazza, cento volte meglio di quella Afef che appare assai volgare, non riesce più a sopportare la situazione e costringe Karim ad uscire immediatamente di casa. I giorni successivi sono un tormento, non riesce a dormire ed ha sempre mal di stomaco, prende dei giorni di malattia e consulta una psichiatra che le prescrive dei farmaci ansiolitici ed ipnotici per dormire. I farmaci sembrano non funzionare con Adriana, anzi hanno un effetto paradossale, è ancora più irrequieta ed insonne. Dopo alcune settimane decide di interrompere le medicine e conta che il solo yoga possa darle pace e serenità. I giorni passano ma Adriana sta sempre male, oltretutto viene a sapere che Karim cerca di contattarla nonostante lei lo abbia bloccato e minacciato di chiamare la Polizia se si fosse fatto ancora vivo. L’insegnante di yoga spesso la ospita a casa sua quando capisce che Adriana è davvero angosciata e potrebbe farsi del male, non solo, la convince a prendere appuntamento con uno psicologo per iniziare un percorso psicoterapico. I colloqui sono difficili per la disperazione che Adriana vive, potete immaginare cosa possa pensare degli uomini… All’inizio delle consultazioni spesso utilizzo il test del copione per capire meglio le dinamiche familiari della persona, utili per poi fare chiarezza su eventi dolorosi attuali e sulle modalità di reazione della persona stessa. Dal test che Adriana compila emerge qualcosa di opaco in riferimento al termine del periodo adolescenziale: le domande successive non portano luce su momenti importanti della sua vita verso i vent’anni. Al colloquio successivo Adriana di colpo è colta da un feroce mal di testa, non riesce più a parlare e deve tornare a casa… La seduta che segue è importante perché Adriana molto commossa mi racconta che verso i vent’anni ha dovuto abortire da sola e di nascosto dai familiari dopo che il ragazzo con cui stava l’aveva lasciata di colpo. Un momento doloroso in cui aveva già vissuto un forte mal di stomaco, insonnia per alcuni mesi e grande male alla testa. Tali sintomi “psicosomatici” si sono ripresentati al momento della separazione da Karim, con il vissuto emozionale di una violenza fatta da un uomo nei suoi confronti allora con l’essere costretta all’aborto ora con il tradimento. Concordiamo che Adriana debba parlare di quell’evento con i genitori, è un segreto troppo pesante da tenere dentro di se, un segreto che la fa sentire troppo in colpa. Rientra in Italia e ne parla con i suoi, e… da li a pochi giorni i sintomi “psicosomatici” si riducono e spariscono. Ovviamente il lavoro psicologico continua, un pò come un lutto che va elaborato lentamente, in un processo di “riparazione” perché Adriana possa tornare a “fidarsi” di un uomo. 

 

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/679

 

Jeanne

 

© Pexels
Philippe e Lucie sono i genitori di Jeanne una ragazza ventenne molto brava a scuola, introversa e creativa. Ha una passione per le lingue, desidera perfezionare il suo inglese e sta imparando giapponese e cinese.
Terminate le scuole superiori vuole andare a vivere e studiare in Inghilterra per sei mesi, poi trasferirsi in Cina per qualche anno.
Ha una storiella con Etienne ma di comune accordo decidono di lasciarsi dato che sono poco più che amici ed il giovane non accetterebbe mai una storia a distanza, poi in Cina…
I genitori sono contrari e preoccupati per il suo trasferimento in Cina, paese così lontano, consapevoli che sarà difficile potersi incontrare ma Jeanne è decisa a vivere tale esperienza.
In Inghilterra Jeanne comincia a mangiare poco, dice ai genitori che il cibo è cattivo e costoso.
La prima volta, dopo alcuni mesi, in cui i genitori vedono Jeanne a Cambridge sono molto colpiti, la ragazza è magra, con la pelle bianchissima e con poche forze. Lavora alla sera in un pub e studia in maniera ossessiva l’inglese per giungere ad un ottimo livello prima di partire per la Cina. Jeanne non sembra consapevole del suo stato di salute, non si percepisce magrissima ed attribuisce la stanchezza al lavoro pesante oltre allo studio. I genitori provano ancora a parlarle preoccupati del suo stato di salute ma Jeanne li rassicura, appena potrà partire per la Cina sarà più tranquilla e con un lavoro “normale” per cui il peso si aggiusterà da solo.
Philippe e Lucie rientrano a casa per nulla rassicurati, anzi ancor più in pensiero per la  loro figliola.
Visto che le loro parole non hanno sortito alcun effetto su Jeanne, coinvolgono Etienne l’ex ragazzo di Jeanne, anch’egli preoccupato per la ragazza, che magari potrà essere ascoltato.
Il giovane addirittura va a Cambridge con la scusa di un seminario per incontrare Jeanne.
I due si vedono e trascorrono del tempo assieme, gioiosamente e quasi in un “ritorno di fiamma” che li stupisce e rende contenti. Di tutto possono parlare ad eccezione della magrezza di Jeanne che è proprio argomento tabù. Al rientro Etienne non può che confermare la preoccupazione sua e dei genitori per lo stato di salute di Jeanne, assolutamente refrattaria ai temi del peso, cibo e corpo.
Etienne, che studia psicologia, indica ai genitori Soremax, con l’idea che possano parlare con noi e, magari, pensare qualcosa per aiutare Jeanne.
Ci incontriamo e quando stiamo per ipotizzare una qualche strategia veniamo presi in contropiede da un’improvviso fatto: Jeanne è ricoverata d’urgenza in ospedale per una seria intossicazione alimentare. I genitori ed Etienne volano in Inghilterra da Jeanne che è veramente in una brutta situazione. Non si capisce bene cosa e dove possa avere mangiato qualcosa da farla stare così male. Uno dei medici, ufficiosamente, pensa che Jeanne possa avere abusato di qualche farmaco per dimagrire, acquistato su Internet e poi mangiato schifezze…
Tant’è Jeanne dopo otto giorni in ospedale viene dimessa ed è costretta a tornare a casa con i genitori. Naturalmente Jeanne assicura di essere vittima di una intossicazione e nega la regolare assunzione di farmaci per dimagrire. I genitori sono esasperati e non sanno che fare, solo Etienne riesce ad avere un dialogo con Jeanne che, finalmente, gli confessa l’utilizzo di lassativi per tenere sotto controllo il peso dato che si percepisce grassa e gli chiede di mantenere il segreto con i genitori.
Ora Etienne si trova tra “l’incudine ed il martello”. È davvero in una situazione difficile ma, forte del “ritorno di fiamma” dei sentimenti con Jeanne, decide di affrontarla con decisione e le propone di intraprendere una psicoterapia di coppia con lei.
All’inizio Jeanne si oppone ma per non “perdere” Etienne acconsente a qualche colloquio di coppia. Lui propone Soremax con la promessa di non toccare il tema del cibo, ma affrontare le loro dinamiche di coppia. Jeanne acconsente, anche se molto “tiepida”. Come promesso lavoriamo sulla loro relazione di coppia e sui rispettivi sentimenti. Appare innegabile nello sviluppo dei colloqui che la relazione dei due ragazzi ora è certo molto più solida e positiva.
Jeanne accetta di continuare i colloqui di coppia consapevole che ora occorre affrontare anche la sua sofferenza legata al mangiare, senza girare attorno al tema.
Non è facile per Jeanne, ma il sostegno e l’affetto di Etienne fanno la differenza…
Come sempre affianchiamo al lavoro psicologico, in questo caso di coppia, l’atelier sensoriale-gustativo per un recupero del “piacere” del cibo che per Jeanne è solo tormento e paura per le calorie assunte che per lei significano prendere peso e diventare grassa.
L’atelier di Soremax consente di “scoprire” nutrimenti, abbinamenti ed il quinto gusto l’umami senza calcolare calorie e zuccheri. Per Jeanne tutto ciò è sorprendente ma si accinge di buon grado a seguire la nostra proposta.
Jeanne ha messo qualche chilo di peso ed è sempre molto legata ad Etienne, stanno pensando di andare a vivere assieme e (forse) sposarsi. Per quanto riguarda la Cina al momento il progetto è spostato nel tempo ed eventualmente vedrà i due ragazzi andare assieme…

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/679






 


Isabelle

  

© Pexels

Isabelle
ricorda che sin da ragazzina è stata “in carne”, terribile espressione per dire grassa.
Siccome era simpatica e generosa i compagni di classe la coinvolgevano sempre nei loro giochi ma nell’attività fisica era in grande imbarazzo. Impacciata e goffa, si era fatta fare dal medico un certificato per non svolgere ginnastica a scuola come le altre ragazze.
In adolescenza per qualche anno aveva perso peso ed era proprio contenta, aveva avuto per due anni un flirt con un ragazzo, poi di colpo lui era sparito. Non solo, il ragazzo si era messo con una sua amica. Risultato: aveva perso amica e ragazzo. Da allora si era rifugiata nel cibo, aveva sempre voglia di sgranocchiare qualcosa, soprattutto dolci, pur sapendo che le facevano male.
I genitori le avevano tentate tutte, con le buone e con le cattive: diete, controlli medici e ginnastica, invano. Una serie di colloqui con uno psicologo avevano attenuato la “fame” di Isabelle, ma lei aveva deciso di interrompere le sedute.
Ora Isabelle è una giovane donna di 26 anni, ha studiato informatica, sua passione, e lavora in una grande azienda. Ha praticamente provato tutte le diete possibili, all’inizio riesce a perdere peso ma nel giro di uno-due mesi perde il controllo e riprende il peso con in più delusione e rabbia per lo scacco subito.
É stata anche ricoverata presso un centro specializzato ma ha interrotto il programma di cura dopo tre settimane perché si sentiva “in prigione”.
Vive ancora con i genitori (è figlia unica) ed i rapporti familiari sono buoni.
Il cruccio dei genitori è vederla da sola senza un compagno, lei che è una ragazza cosí brava e sensibile. Ha avuto una relazione con un collega di lavoro, anch’egli sovrappeso e così ci dice Isabelle: “Abbiamo lo stesso cruccio, non ci piacciamo ma stare soli è doloroso”. La storia va avanti tra alti e bassi per un paio di anni poi il ragazzo si trasferisce in una sede estera dell’azienda.
É uno choc per Isabelle, lui le assicura che anche a distanza la loro storia potrà continuare ma lei ha una bruttissima sensazione. Inizialmente riescono a vedersi almeno una volta al mese poi le cose si fanno difficili. Il ragazzo si allontana sempre più sino a quando Isabelle in un momento di rabbia decide di chiudere la storia. Lui “sparisce” e conferma ad Isabelle che la storia era finita già da tempo, purtroppo. Gli effetti di questa rottura sono molto pesanti per Isabelle: prende ancora peso, dorme male e spesso la sera beve dei superalcolici per… aiutarsi a dormire.
Le giornate di Isabelle sono tutte uguali, si alza, va al lavoro, rientra e mangia. Il sabato e la domenica guarda delle serie televisive e… mangia.
I genitori sono disperati perché Isabelle sembra essersi “lasciata andare”, non ha interesse per nulla, non vede persone e mangia, mangia… La costringono “obtorto collo” a consultare un nutrizionista (uno dei tanti) che però ha con lei un approccio diverso. Anziché parlare di diete, cibi ed abbinamenti, le propone il test PCS che noi di Soremax abbiamo preparato: una serie di venti domande volte a conoscere il rapporto tra le emozioni ed il cibo. Infatti pensiamo che se non si parte dall’intima connessione tra il mangiare e le nostre emozioni non ha senso parlare di calorie, zuccheri e nutrienti…
Il test incuriosisce un pò Isabelle, stupita che il nutrizionista non le prescriva una dieta (che lei sa bene non funzionerà). I dati del test evidenziano aspetti emozionali legati al senso di abbandono ed una profonda nostalgia. Questi elementi vanno ovviamente inseriti e compresi nella storia di Isabelle, per cui il nutrizionista le suggerisce un incontro con Soremax con la promessa che non si parlerà assolutamente di cibo e diete.
Con questa rassicurazione Isabelle ci incontra. Il colloquio è difficile, Isabelle è sfiduciata ed arrabbiata con il mondo e, soprattutto, con se stessa. Riusciamo a concordare altri appuntamenti volti a capire l’origine dei suoi sentimenti di abbandono e nostalgia. Poco alla volta emerge il profondo dolore per un trasferimento quando aveva otto anni, da un paesino tranquillo alla grande metropoli, che Isabelle ha vissuto malissimo. Non ne aveva mai parlato con suoi genitori per non preoccuparli ma si sentiva proprio perduta, senza le sue amichette di scuola. Ad un certo punto della seduta si ricorda che rubava dei soldini in casa per comperare di nascosto delle merendine che mangiava a scuola. Il cibo per lei cominciava ad essere un “ansiolitico”, le permetteva di vivere senza percepire troppo dolore. Passiamo poi al doloroso capitolo degli abbandoni dei ragazzi che ancora la fanno soffrire enormemente. Ci dice che il vuoto che percepisce può essere colmato solo con il cibo, che la riempie e stordisce al contempo.
Verbalizzare questi aspetti è l’inizio del lavoro psicologico per Isabelle, ma occorre affrontare “di petto” il totale disordine alimentare della giovane.
Isabelle ci aveva raccontato che talvolta mangiava dei cibi ancora parzialmente surgelati, tanto per riempire, non per nutrirsi!
Come Soremax utilizziamo gli aspetti sensoriali-gustativi del cibo per un approccio più sano al cibo stesso, slegati dalla conta delle calorie o da altri aspetti “tecnici” dell’approccio all’alimentazione che sappiamo essere troppo spesso fallimentari per le diete di queste persone.
Sapore, colore, piacere, gusto e umami (il quinto gusto) sono gli assi di lavoro di Soremax per approcciare il cibo come un piacere, un ritrovato desiderio di assumere ciò che ci piace e fa bene.
In parallelo alle sedute psicologiche Isabelle viene “accompagnata” a fare la spesa, conoscere i vari alimenti, abbinarli ed apprezzarne profumo e gusto (per lei totalmente estranei).
È un lavoro delicato da fare assieme a noi di Soremax, per permettere ad Isabelle di acquisire consapevolezza di sé nella riscoperta del cibo come piacere e non “nemico” o veleno.
Isabelle è poi stimolata a recuperare un minimo di vita sociale, incontrare persone e non passare i fine settimana davanti alla televisione…
Sapendo che le piacciono gli animali la convinciamo ad offrirsi come volontaria presso un’Associazione. Dapprima esita poi si convince e inizia a partecipare alle attività di raccolta fondi ed a seguire alcuni cagnolini abbandonati ed in carico all’Associazione stessa.
Non passa neanche un mese ed un bel setter (abbandonato) “la sceglie” ed Isabelle decide di portarlo a casa. I genitori sono contrari, non hanno mai avuto animali in casa e la madre ha paura dei cani! Breve battaglia casalinga ed, ovviamente, il setter ora è ben piazzato in casa ed è la gioia di tutti e tre per la sua dolcezza e giocosità.
Il lavoro continua, Isabelle è consapevole che questo è solo l’inizio di un percorso che potrà fare accompagnata da Soremax ma che esige (responsabilmente) che lei contribuisca al buon esito finale, senza sentirsi in colpa, “sbagliata” o malata…

Il testo è redatto nel rispetto del Codice della Privacy-GDPR-regolamento UE 2016/679